Una questione di emozioni

Qualcuno storcerà sicuramente il naso, ma se dovessi stilare un elenco delle mie canzoni preferite dei National, beh, sarebbero quasi tutti brani datati tra il 2003 e il 2013. Insomma, sarà capitato anche a voi di perdere un pochino di entusiasmo per una band… Quella che un tempo parlava esattamente la vostra lingua, all’improvviso sembra aver smarrito per strada le chiavi giuste per entrarvi nel cuore.

Nella gran parte dei casi succede per questioni di età. Il gruppetto flower punk che adoravi a 15 anni, oggi, molto probabilmente, non è più in grado di interpretare le tue emozioni. Altre volte capita per problemi ideologici o di posizionamento. Band che dalla nicchia passano al mainstream, paladini dell’indie che si trasformano in giudici di X-Factor, musicisti militanti che iniziano a votare Meloni.

Altre volte ancora, molto più semplicemente, dipende dalla musica. E per quanto mi riguarda, è proprio il caso dei cari vecchi National. Il gruppone dell’Ohio mi ha emozionato per davvero fino all’uscita di “Trouble Will Find Me”. A dire la verità, già allora iniziavo a sentirli un pochino più lontani. Quello, però, era un disco importante, da 8 in pagella. Non si discute.

Poi nel 2017 fu la volta di “Sleep Well Beast”, un altro bel lavoro. Certamente meno intenso del precedente, ma comunque un bel lavoro. Dal maestoso galeone rimasto ancorato per anni davanti alla mia isola deserta, i National si erano però trasformati in una nave da crociera che navigava placida a un paio di miglia dalla costa.

Lo stesso potrei dire di “I Am Easy To Find”. Un album a tratti commovente, il più ambizioso della discografia. Un quadro ben dipinto, che tuttavia mostrava un volto diverso del gruppo.

 

Il lato positivo

“First Two Pages Of Frankenstein”, uscito per la solita 4AD, non è tutto da buttare. Diciamo, però, che la situazione si complica ulteriormente. La prima metà dell’album si mantiene ad alti livelli, su questo non ci piove. Servono un paio di ascolti, ma non è davvero niente male.

Once Upon A Poolside è una ballata struggente come poche altre; Eucalyptus, epica e trainante, starebbe bene in “High Violet”; New Order T-Shirt, con quella chitarra arpeggiata e rotonda, non sfigurerebbe per nulla in “Sad Songs For Dirty Lovers”; This Isn’t Helping se la cava con grazia, mentre Tropic Morning News va dritta dritta al punto, confermandosi il singolo più radiofonico del lotto.

Bisogna anche ammettere che Matt Berninger, nonostante il blocco dello scrittore di cui pare abbia sofferto negli ultimi anni, si conferma una penna ispirata e sopraffina. Testi del genere se li sognano in tanti. La band, poi, ci ricama sopra, come sempre, con grande stile e senza troppi fronzoli.

 

Il lato negativo

Eppure nella seconda parte del disco la qualità si abbassa drasticamente. Qui ci sono brani che hanno l’aria del riempitivo. Che incidono poco nella scaletta (Alien) e viaggiano con il pilota automatico (Grease In Your Hair). A lungo andare si sprofonda nel già sentito, nello scontato (Ice Machines). E detto proprio francamente, a un certo punto dell’ascolto scappa anche qualche sbadiglio (Your Mind Is Not Your Friend).

È un vero peccato, perché a quanto pare questo lavoro arriva a conclusione di un lungo periodo di vuoto. In questi quattro anni di assenza i National avrebbero addirittura rischiato di sciogliersi. Il loro ritorno, dunque, è certamente una buona notizia, ma il risultato, a mio parere, è buono solo per metà.

C’è chi sostiene che “First Two Pages Of Frankenstein” mantenga tutto sommato lo stile classico della band. Non credo sia esattamente così. Il disco rappresenta il punto di arrivo di un percorso di progressivo smussamento degli angoli iniziato ormai una decina di anni fa.

È vero, risulta un pochino più frizzante di “I Am Easy To Find”, ma non si può dire che sia un ritorno al passato. Tutto suona sempre più morbido e vellutato. Una patina soffice avvolge la musica già cadenzata dei National, ne assorbe gli acuti, raschia la ruggine, ne modella i contorni. Saranno forse le recenti incursioni nel pop di Aaron Dessner, ma l’impressione è che tutto appaia più controllato, protetto, levigato.

Gli undici brani del disco si srotolano come una passatoia persiana su un pavimento già ricoperto di moquette. Un tappeto bellissimo, ma a tratti stucchevole. Anziché rompere il silenzio con un graffio, si distende in una rassicurante e fin troppo lieve carezza.

Anche la voce di Berninger sembra mutata. Più regolare e per questo meno profonda, meno peculiare. Gli strappi di “Alligator” sono un lontano ricordo. Come se prima di arrivare all’orecchio venissero filtrati da uno strato di bambagia.

Un’ultima critica alle collaborazioni. Mentre in “I Am Easy To Find” l’abbondante presenza di voci femminili davano senso all’intera opera, in “First Two Pages Of Frankenstein” le firme di Sufjan Stevens, Phoebe Bridgers e Taylor Swift, in quattro brani su undici, appare sbiadita. Nulla danno e nulla tolgono. Ci stanno bene, ma potevamo anche farne a meno. Soprattutto di Taylor Swift.

 

Ma fidarsi è un bene

In definitiva questo nono disco dei National merita solo una sufficienza, ma anche tanta fiducia, tanto affetto. Poteva essere l’album della rinascita, ma purtroppo non lo è stato. Pazienza. È un lavoro interlocutorio, che gode di tre o quattro gemme, ma pecca di leggerezza (nel vero senso della parola) in tanti passaggi.

Ripeto, non è un disco da buttare, ma per la prima volta dovrò abituarmi a skippare qualche brano. Vabbè, resto in attesa che il quintetto di Cincinnati torni a emozionarmi per davvero e a regalarmi nuovi brani da inserire nel mio best of. Dai eh.

Paolo