Nel video di Stones, primo singolo estratto da “Bloom”, i Tiger! Shit! Tiger! Tiger! se ne stanno stesi su un tappeto, ubercool e serafici. Suonano imperturbabilmente con gli occhiali da sole, non proprio immobili, ma neppure si scatenano. Trasmettono così tutta la loro inscalfibile, quintessenziale tigershittigertigeritudine. Diego Masciotti (chitarra, voce), Giovanna Vedovati (basso) e Nicola Vedovati (batteria) sono tornati, dopo quasi sette anni. A loro, nel tour che è partito il 23 febbraio dal Covo Club di Bologna, si aggiungerà anche la Gibson di Bernardo (e il suo Fuzz War).

Piccolo recap per chi non c’era, o inseguiva una sua chimera.

Fondano i TSTT nel 2006 a Foligno, letteralmente “Lu Centru De Lu Munnu” in una provincia senza mare e forse per questo i cuori puntano subito oltre l’Atlantico. Suonano un rumorosissimo indie-rock/post-proto-punk e si fanno tutta la gavetta; centinaia fra concerti e festival e pubblicano album solo quando sentono che è arrivata l’ora di dire qualcosa, prendendosi tutto il tempo necessario.

Evidentemente di “battere il ferro finché è caldo” non ne hanno mezza; stanno già al quinto (o sesto?) SXSW, sono stati selezionati un paio di volte anche per il CMJ a New York; hanno condiviso il palco con Ari Up delle Slits, Kim Gordon, Chris Leo, Iceage e Mogwai, Male Bonding (oltre che con gran parte della scena alternativa italiana). Spin li ha segnalati fra le band da tenere d’occhio già quindici anni fa; predisposti naturalmente a un’audience internazionale, hanno già visto diversi propri brani finire dentro le OST di film americani e di serie tv targate BBC.

“Bloom” è quindi il quarto album di una band che non deve dimostrare niente a nessuno; al massimo ci ricordano come stiano affilando ulteriormente un linguaggio creativo coerente con i lavori precedenti, mantenendo intatta l’attitudine live e aggiungendo sonorità altre. Registrato, mixato e masterizzato completamente in analogico da Filippo Passamonti (in passato in studio con Kurt Vile) al VDSS Recordings di Ceprano, l’artwork è affidato a Keeley Laures, visual designer di Brooklyn che ha collaborato con band ed etichette d’oltreoceano come Ride, My Bloody Valentine e Lemonheads.

Questo breve riassunto ve lo dovevo perché magari siete giovani. Oppure perché vi siete distratti a causa del nome fighissimo, che se è piaciuto tantissimo a Stephen King (quante altre band italiane sono state citate pubblicamente da Stephen King oltre a loro? hint, NESSUNA MAI), ci può stare piaccia molto pure a voi e forse vi deconcentra.

I TSTT sono una band che ha trovato anni fa il suo suono (diciamo poco dopo “Be Your Own Shit”, 2008) e che nel tempo si è “limitata” a cesellarlo, ad arricchirlo partendo da una ispirazione già solida e molto a fuoco, perché – diceva bene il poeta – “siamo stanchi di novità”. Certo non smettono di sperimentare, impastando chitarre distorte o riverberate, linee di basso esplosive o glaciali; adesso sembrano un po’ più lontani dal lo-fi degli inizi e più incamminati verso una specie di “forma canzone”.

Strada facendo hanno smussato certe asperità, continuando un’evoluzione in cui sono sempre più riusciti a dare una forma al disordine sonoro, come in “Corners” (ultimo album del 2017). Ma questo percorso non diminuisce l’impatto emotivo, non tradisce l’urgenza, le radici e l’identità della band; i riferimenti sonori e sentimentali, per quanto rielaborati o diversamente riecheggiati, quelli restano: My Bloody Valentine, Dinosaur Jr, Sebadoh, le chitarre storte dei Pavement, sopra tutti i Sonic Youth.

Si apre con la vischiosa e ipnotica Memory, si passa a Stones, il singolo dai suoni scuri e pesanti alla Jesus And Mary Chain. Poi c’è Dark Thoughts, sospesa fra riff che deflagrano direttamente dalla Seattle anni ’90 e le dissonanze in loop nel finale. La minacciosa Endless entra subito molto sonicyouthiana, il sound si fa più corposo, stratificato su impalcature ritmiche elementari sorrette da una batteria maestosa, dove si innestano vibrazioni funeree alla Alice In Chains.

Un po’ in tutto “Bloom” si respira un rassegnato sentimento di fine più o meno imminente. Anche se, al contrario, l’album parla di rinascita. Un magma di chitarre ribollenti imperversa in Empty Pool, brano che dà l’esatta misura di come e quanto i TSTT siano in grado oggi di controllare il caos; Blanket e In Between portano in superficie il lato forse più goth dei TSTT, come se gli Interpol fossero andati a scuola dai Sister Of Mercy e dai primi Cure anziché dai Joy Division; con Hands Down si torna alle atmosfere malate dei Nirvana di “In Utero”, Afterwards ha qualcosa di malkmusiano nell’incedere e Melting Forest chiude solenne e ferale un lavoro compatto, capace di tenere insieme mondi musicali distanti.

I TSTT sono tornati senza fretta con un lavoro centrato, destinato a rimanere nelle nostre orecchie molto a lungo. “Bloom” si schiude all’ascoltatore senza perdere complessità, sempre in bilico tra noise e grunge, post-punk e shoegaze, emotività e violenza, delicatezze e potenza, burrasca e intimità, incandescenza e gelo «Ti faccio entrare nel mio mondo solo se ho la certezza che mi capirai». Sempre fedeli alle chitarre 90s e a una certa idea di musica indipendente che non va più molto di moda. Quindi per sempre nel nostro cuore.

Andrea Bentivoglio