“Planet Nowhere” è uno di quei dischi di cui nemmeno ti accorgi. Vieni a sapere della sua uscita soltanto se te lo annuncia un amico particolarmente attento. Nel farlo, però, usa lo stesso tono un po’ sarcastico di quando incroci un personaggio dimenticato della televisione. “Oh, ma lo sai chi ho visto all’Esselunga?”. Ecco, tipo così, con la risatina trattenuta a stento, per dare a intendere che ormai parliamo di una band bollita. “Oh, ma lo sai chi ha pubblicato un disco nuovo? I Razorlight!”.

Già, i Razorlight. Protagonisti della seconda ondata dell’indie-rock Anni Zero, revival del revival del revival, i quattro britannici misero a segno una manciata di hit (e che hit, da In The Morning ad America fino a Golden Touch), con i primi tre album pubblicati tra il 2004 e il 2008. Poi, dopo un silenzio lungo dieci anni, tornarono nel 2018 con una nuova formazione e il solo Johnny Borrell rimasto a tirare la carretta. “Olympus Sleeping”, quarto disco in carriera, era un lavoro trascurabile, possibile preludio di un finale in sordina.

E invece no, previsione sbagliata. Perché il 25 ottobre scorso, a 20 anni dal loro esordio, i Razorlight hanno pubblicato questo quinto album per la V2 Records. Si tratta di una doppia sorpresa. Da una parte il rientro in formazione di tutti i membri originali, dall’altra un ritrovato smalto che in pochissimi, per non dire nessuno, si aspettavano.

Il fatto è che i Razorlight non hanno fatto quasi nulla per ringiovanire il loro sound. E questo ha giovato molto al disco. A differenza di parecchie altre band della loro generazione, tipo Vaccines, Wombats, The Fratellis o gli stessi Franz Ferdinand, che in tempi recenti hanno buttato fuori dischi di dubbio gusto in cui appare chiaro il tentativo (miseramente fallito) di suonare ancora moderni, i nostri quattro sono riapparsi in scena senza alcuna pretesa. Chi si veste da ragazzino quando ragazzino non è più, fa solo una brutta figura. I Razorlight lo sanno bene. E così, in buona sostanza, hanno continuato a fare il loro. Con un bel risultato.

Intendiamoci, “Planet Nowhere” non è un capolavoro, ma è di sicuro un album molto divertente, molto ben scritto, che scorre liscio senza mai stuzzicare lo skip. Ma attenzione a non farvi ingannare dai primi due brani. Sono buoni, ma sono anche i più pulitini, forse un po’ troppo patinati. Il discorso si fa più serio a partire da Taylor Swift = US Soft Propaganda, titolo programmatico e canzone volutamente senza ritornello. Da qui in poi l’approccio cambia un poco. Anche la voce di Borrell assume un tono lievemente diverso, vagamente più vissuto, e si staglia su testi mai scontati.

In Dirty Luck, l’autore fa la parte del “cavallino” per le etichette (“I’m driving to the record company, I’m the guy who sells them drugs”). Scared Of Nothing, che fin dal titolo sembra spiegare il segreto della band, si chiude con una bella esplosione di chitarra. Ma a conquistare definitivamente sono il riff della successiva F.O.B.F., che ricorda il miglior Graham Coxon, e l’irresistibile Cool People, roba che un tempo vi avrebbe fatto ballare tutta la sera nel vostro locale indie preferito. Qui Borrell si prende gioco delle band alla moda (“There are no cool people in this band, we hate those phony motherfuckers can’t you fucking understand?”), vestendo i panni del musicista ormai navigato.

Insomma, come avrete capito il disco è bello fresco e ben suonato. Lo butti giù come un’aranciata in spiaggia, ma all’occorrenza è anche capace di darti qualche grattacapo. A volte alla musica non si chiede altro. Allora non siate diffidenti, ascoltate l’amico che ve ne ha parlato: “Ma dai, i Razorlight?” – “Sì, quelli di In the morning!”, e fatelo girare un paio di volte. Ci penso, ma alla fine potrei concedere a “Planet Nowhere” un posticino nella classifica di fine anno.

Paolo