Cinque anni dopo l’intimo e malinconico Serpentine Prison, Matt Berninger torna con Get Sunk, un disco che segna una nuova fase, più calda e curiosa, del suo viaggio personale e musicale. Il frontman dei The National — maestro del malessere elegante e del disincanto poetico — mette da parte l’ombra opprimente del passato per immergersi in acque più tranquille, anche se non prive di profondità. Il risultato è un album che non urla, ma accarezza; che non consola, ma accompagna. Il titolo, Get Sunk, evoca proprio questo: lasciarsi andare, rallentare, osservare i pensieri come si muovono sott’acqua, lenti e sfocati. È anche un invito implicito alla riflessione, al viaggio interiore che Berninger ha intrapreso dopo essersi trasferito nel 2023 con la moglie e la figlia dal caos di Los Angeles alla quiete del Connecticut. Qui, tra passeggiate nei boschi, pittura, letture e ricordi d’infanzia in Indiana, ha riscoperto se stesso. Non un ritorno alla luce, ma un abbraccio consapevole dell’ombra, più tenero e umano. Musicalmente, Get Sunk è un abito su misura: intimo, rifinito, mai invadente. Berninger canta con la consueta voce baritonale — bassa, stanca, incredibilmente espressiva — ma con una leggerezza nuova, quasi colloquiale, come se parlasse con un amico davanti a un bicchiere di vino rosso. Lo accompagnano musicisti del calibro di Kyle Resnick (compagno nei National), Harrison Whitford, membri dei Walkmen, e le voci di Meg Duffy (Hand Habits) e Julia Laws (Ronboy), che impreziosiscono due dei momenti più intensi del disco.
“Breaking into Acting”, cantata con Duffy, è una ballata acustica sospesa, con immagini brillanti e inquietanti: “Your mouth is always full of blood packets” è una di quelle frasi che restano incastrate nella mente. “Silver Jeep”, con Laws, unisce registrazioni ambientali (il mare, i bambini che giocano) a un arrangiamento jazzy e teatrale, dove il quotidiano e il cosmico si intrecciano: “I only want you to rattle my bones and run after me ’til you see my lights are gone”. C’è spazio anche per momenti più ritmati, come “No Love” (“Everything we ever wanted / But no love”) e “Bonnet of Pins”, che riescono a unire dolore e ironia in un’armonia che sembra quasi consolatoria. “Junk” è invece un inno dolente al tempo che passa, in cui Berninger immagina fiori che crescono sulla sua tomba in Indiana, con un romanticismo che non cerca redenzione, ma solo comprensione. E poi arriva “Nowhere Special”, un flusso di coscienza su beat rilassati, dove frasi surreali si fondono con appunti da diario: “Pronuncierà le mie sciocche parole nel microfono che vi sbriciola la mente”. È qui che il Berninger più autentico si rivela: quello che non finge di avere risposte, ma sa rendere meravigliosamente condivisibili i suoi dubbi. Il disco si chiude con “Times of Difficulty”, un brano dal respiro epico alla Neil Young, con organo e cori che spalancano una finestra sull’esterno. “If we’re not dying, then what are we?” chiede Matt. E noi, ascoltando, non possiamo che farci la stessa domanda.
In un mondo che corre, Get Sunk è un invito a fermarsi, a sentire, a ricordare. È il diario di un uomo che ha trovato il coraggio di guardarsi dentro senza per forza salvarsi. E in questo gesto c’è tutta la sua verità.

Smemorato sognatore incallito in continua ricerca di musica bella da colarmi nelle orecchie. Frequento questo postaccio dal 1998…
I miei 3 locali preferiti:
Bloom (Mezzago), Santeria Social Club(Milano), Circolo Gagarin (Busto Arsizio)
Il primo disco che ho comprato:
Musicasetta di “Appetite for Distruction” dei Guns & Roses
Il primo disco che avrei voluto comprare:
“Blissard” dei Motorpsycho
Una cosa di me che penso sia inutile che voi sappiate ma ve la racconto lo stesso:
Parafrasando John Fante, spesso mi sento sopraffatto dalla consapevolezza del patetico destino dell’uomo, del terribile significato della sua presenza. Ma poi metto in cuffia un disco bello e intuisco il coraggio dell’umanità e, perchè no, mi sento anche quasi contento di farne parte.