A ben 8 anni da “Caustic Love”, Paolo Nutini è tornato finalmente con un nuovo disco. Lasciatosi alle spalle le comunque bellissime ingenuità pop dei primi due album, così come la grinta soul del terzo, il cantautore scozzese di chiare origini italiane ha avuto tempo per esplorare nuove vie. Da qui probabilmente il nuovo amore per synth e suoni che richiamano gli anni ottanta, come per le chilometriche code strumentali dal retrogusto psichedelico. Peccato che Nutini ottenga comunque il meglio quando si riallaccia, ancora una volta, alla tradizione sixties e seventies. Operazione che l’artista ripete ancora spesso, nonostante le nuove direzioni intraprese.

Dopo l’inizio atmosferico della recitata e stupendamente urlata Afterneath, arriva subito una delle canzoni che mostrano chiaramente questo nuovo lato: Radio. Poi Nutini decide di riprendere in mano la chitarra acustica e di regalarci una delle sue irresistibili melodie: non a caso il singolo Through the Echoes ha fatto da apripista all’album. Molto bella la ballabile Petrified in Love, fra i The Beat di Paul Collins e i Ramones senza distorsione punk; piacevole il richiamo ai vari Lou Reed, Jim Carroll e compagnia newyorkese di Lose It; da pelle d’oca quando Nutini gioca a fare Bob Dylan (Abigail e la conclusiva Writer), mentre è un po’ stucchevole l’epicità springsteeniana di Shine a Light. Molto meglio la tensione lasciata esplodere in un sontuoso gospel finale in Everywhere, o il tocco da maestro negli omaggi ai Beatles e a David Bowie di Julianne e Take Me Take Mine.

In definitiva questo “Late Night in the Bittersweet” è un album forse più maturo, ma sicuramente più difficile dei precedenti. In ogni caso Paolo Nutini si riconferma uno dei migliori autori della sua generazione.

Andrea Manenti