“Un disco country, qualcosa di così dolce e malinconico che solo i cowboy potrebbero cantarlo”: così Peter Doherty ha descritto il suo nuovo lavoro solista, un disco che si colloca idealmente come il terzo della sua carriera da solista, ma che potrebbe tranquillamente essere considerato il dodicesimo, se si tiene conto del suo ricco e variegato percorso tra band (The Libertines, Babyshambles, The Puta Madres) e collaborazioni prestigiose, come quella con il compositore francese Frédéric Lo. Un artista dal passato burrascoso e dalla sensibilità fuori dal comune, Doherty torna con un lavoro che conferma, ancora una volta, la sua capacità di emozionare con disarmante naturalezza, fondendo poesia e vita vissuta.

Le undici tracce che compongono questo nuovo album incarnano perfettamente le parole del loro autore. È un disco intimo, crepuscolare, attraversato da una malinconia gentile e sincera, che affonda le radici nella tradizione del country americano ma si nutre anche di folk, chanson française, jazz e accenni di punk. Un’opera dalle molte sfumature, che non si limita a omaggiare un genere, ma che piuttosto lo assorbe e lo reinventa, restituendolo sotto forma di una narrazione personale e sincera.

Peter Doherty si conferma uno dei migliori parolieri della sua generazione – e forse non solo. Le sue liriche continuano a costruire mondi sospesi fra incanto e disillusione, popolati da personaggi dai contorni sfumati, figure romantiche, disperate, eccentriche, spesso in lotta con se stesse e con il mondo. In queste canzoni si parla di amore (non solo romantico, ma anche famigliare), di fantasmi del passato, di perdite e di speranze che resistono. Il tutto è incorniciato da un immaginario che alterna le icone inglesi di sempre – Londra, la cultura working class, l’ombra lunga di Albione – con i paesaggi più recenti e rilassati della sua nuova vita in Normandia, dove Doherty vive ormai da tempo e dove ha trovato una sorta di rifugio creativo e spirituale.

Musicalmente, come detto, il country domina, ma senza mai chiudersi in un recinto di genere. Si avvertono echi del folk britannico degli anni Settanta, accenni di blues e persino atmosfere cinematografiche alla Ennio Morricone. La doppietta iniziale composta da Calvados e Pot of Gold apre il disco nel migliore dei modi: i brani evocano immagini da western crepuscolare, con un tono elegiaco che ricorda da vicino le colonne sonore della Trilogia del dollaro. The Day the Baron Died, invece, riprende una canzone recente dei Libertines (Baron’s Claw), ma ne cambia completamente l’approccio: qui il tono è più grave, più meditativo, quasi funebre, come a voler chiudere un cerchio aperto anni fa.

La title track si basa su un giro armonico familiare a chi segue Doherty da tempo: una progressione dolceamara, malinconica eppure immediatamente riconoscibile, che rende il pezzo un classico istantaneo, come se fosse sempre esistito nel suo repertorio. C’è poi Poca Mahoney’s, un duetto sorprendente con la cantautrice irlandese Lisa O’Neill, la cui voce ruvida e intensa si intreccia perfettamente con quella più fragile e sognante di Peter. Il risultato è una sorta di ballata punk-folk che richiama lo spirito dei Babyshambles ma in una veste più matura e riflessiva.

Tra i momenti più intensi del disco c’è sicuramente Prêtre de la Mer, un pezzo che sembra uscito da un racconto piratesco e che suona come un sentito omaggio al mondo narrativo e sonoro di Tom Waits: percussioni disordinate, fiati sporchi, un cantato teatrale e ubriaco che trasforma il brano in un piccolo viaggio epico e disordinato. Poi arriva Ed Belly, un bozzetto jazzato e delicatissimo, impreziosito da un solo di clarinetto che mette i brividi e conferma quanto Doherty sia capace di spostarsi con agilità tra generi e atmosfere.

Altro momento toccante è Fingee, una dedica struggente all’ex compagna di una vita e, in un certo senso, anche all’eroina, presenza ingombrante ma ineludibile nel suo passato. La canzone non indulge nella retorica, ma racconta con lucidità e tenerezza una storia d’amore segnata dalla dipendenza e dalla perdita. Il disco si chiude con Empty Room, una conclusione sussurrata e incompleta, come se le parole si spegnessero lentamente lasciando spazio solo al silenzio e alla riflessione. Una fine perfetta per un disco che si muove costantemente sul filo della nostalgia.

In definitiva, si tratta dell’ennesimo grande album di un artista enorme, che continua a scrivere e cantare come se avesse sempre qualcosa di urgente da dire. Peter Doherty, troppo spesso frainteso o bistrattato dai media e dall’opinione pubblica, dimostra ancora una volta che la sua arte non solo è viva, ma è più vibrante che mai. Un disco che emoziona senza cercare scorciatoie, che commuove senza mai risultare artificioso. Un lavoro sincero, appassionato e a suo modo necessario.