Sarò sincero. La musica di Waxahatchee non mi ha mai esaltato. Lo so, lo so, ne parlano tutti molto bene. “È la nuova paladina dell’indie-folk americano”, dicono. Sarà, ma io l’ho sempre ritenuta una mediocre. Non in senso puramente dispregiativo, sia chiaro. Il fatto è che non mi ha mai impressionato, né dal punto di vista stilistico, né sotto l’aspetto delle emozioni. Insomma, mi ha sempre lasciato un po’ così: indifferente. Per carità, le sue opere sono sempre state sincere e ben scritte, ma la ritengo un tantino sopravvalutata. Ecco, l’ho detto e lo ripeto. Sopravvalutata.
Adesso, però, mi tocca anche dire che questo quinto album, “Saint Cloud”, è forse il migliore della sua carriera. Tutto era iniziato otto anni fa con un disco piccolo piccolo intitolato “American Weekend” e uscito per l’altrettanto minuscola Don Giovanni Records. All’epoca Katie Crutchfield (questo il nome di Waxahatchee all’anagrafe) aveva appena messo la parola fine all’avventura delle P.S. Eliot, la band punk che aveva formato con la sorella gemella Allison. Il disco, composto da 11 brevi tracce per chitarra e voce, tutte registrate in casa nel giro di una settimana, era un’operetta scarna e disperata dal discreto fascino lo-fi.
Con il successivo “Cerulean Salt”, il suono iniziò a farsi più corposo. In qualche traccia fece capolino “addirittura” la batteria e il tormento interiore di Katie ripegò su un college-rock molto Ninenties con una punta di PJ Harvey prima maniera. Il quadro incominciò a diventare più confuso nel 2015 con l’uscita del tanto celebrato “Ivy Tripp”, che segnò l’ennesima svolta nella parabola di Waxahatchee. Qui l’artista originaria dell’Alabama (il Waxahatchee è un fiume che attraversa proprio quelle terre) sembrava barcamenarsi tra la malinconia di un tempo (parte del disco era dedicato a un amico scomparso) e qualche momento di nuova luce sintetica. Musicalmente parlando, un piccolo pasticcio.
Peggio ancora, a mio modo di vedere, fece con il quarto disco, “Out in the Storm” (2017), che la critica incensò ancor più del precedente. Lo ascoltai e riascoltai fino alla noia nella speranza che prima o poi mi prendesse. Niente da fare. In questo penultimo lavoro il lento passaggio dall’auto-distruzione degli esordi a una prima fase di ri-costruzione stava già per realizzarsi. Questa volta accompagnato da un indie-rock più maschio, sporcato qua e là dal pop: una sorta di Kim Deal annacquata e quindi snaturata nel profondo.
Fino a tre anni fa, dunque, il rapporto tra le mie orecchie e la musica di Waxahatchee mi sembrava definitivamente compromesso. Poi, però, il colpo di coda. Nel 2019 la nostra ha dato alle stampe l’EP “Great Thunder”, un piacevole ritorno al passato (i brani erano stati scritti anni prima per un altro progetto), con il piano a sostituire la chitarra e una voce rinnovata e più consapevole. Un capitolo fondamentale nella discografia di Katie Crutchfield.
“Saint Cloud”, uscito il 27 marzo 2020, ne è il suo naturale successore. Un album finalmente composito, illuminato da un country-folk arioso, al limite con la Courtney Barnett più pulita, adatto a un lungo viaggio in macchina nel Sud degli Stati Uniti. L’influenza geografica è infatti molto forte. Dopotutto Saint Cloud è la cittadina della Florida in cui è nato il papà di Katie. E proprio a partire dagli ascolti mutuati dal padre, da Lucinda Williams a Linda Ronsadt, la figlia ormai 31enne ha costruito l’ossatura del suo nuovo lavoro.
Prendete ad esempio Fire, uno dei brani più significativi. Parla di una traversata da Birmingham a Kansas City, passando per Memphis. Al fianco di Waxahatchee c’è il compagno musicista Kevin Morby, con il quale ha anche pubblicato uno split EP nel 2018. “If I could love you unconditionally – canta Katie – I could iron out the eyes of the darkest sky”.
La seconda traccia, Can’t Do Much, ti apre il cuore. È di una semplicità quasi accecante e scorre liscia su un pavimento cosparso di buoni sentimenti. “When you see me, I’m honey on a spoon”, canta ancora Katie nei suoi versi più dolci. Insomma, il nuovo amore deve averle fatto bene.
La più sofferta Lilacs introduce invece un altro tema portante dell’album, nonché la molla che ha spedito l’artista americana su un pianeta decisamente più stabile: la fine della sua dipendenza dall’alcol. Il disagio, si sa, porta spesso a partorire opere d’arte di livello sopraffino. Nel caso di Waxahatchee avviene il contrario. La liberazione dal demone della bottiglia l’ha trasformata in un’autrice ben più ispirata di un tempo. C’è da festeggiare, quindi. E chissene frega se proprio Lilacs sembra una mezza copia di Hand in My Pocket di Alanis Morissette. Arkadelphia e Ruby Falls tornano sul tema delle dipendenze, ma lo fanno con delicatezza e coscienza, nel solito Americana ben impastato di alt-country.
Il resto del disco si snoda sulle medesime linee guida, e conviene ascoltarlo piuttosto che continuare a commentarlo. Perché “Saint Cloud” è un lavoro appassionato. In verità, è appassionato come tutti gli album precedenti di Katie Crutchfield. Questo però, per la prima volta, è anche appassionante.
Paolo
Mi racconto in una frase:
Gran rallentatore di eventi, musicalmente onnivoro, ma con un debole per l’orchestra del maestro Mario Canello.
I miei tre locali preferiti per ascoltare musica:
Cox 18 (Milano), Hana-Bi (Marina di Ravenna), Bloom (Mezzago, MB)
Il primo disco che ho comprato:
Guns’n’Roses – Lies
Il primo disco che avrei voluto comprare:
Sonic Youth – Daydream Nation
Una cosa di me che penso sia inutile che voi sappiate ma ve la racconto lo stesso:
Ho scritto la mia prima recensione nel 1994 con una macchina da scrivere. Il disco era “Monster” dei Rem. Non l’ha mai letta nessuno.