Folla festante e un mare di bandiere del Regno Unito, ma anche dell’Australia per ovvi motivi, e poi di tutte le altre nazioni del Commonwealth. D’altra parte il popolo fuori da Buckingham Palace non sta festeggiando tanto il nuovo sovrano di uno stato europeo, quanto quello del Commonwealth intero.

Dopo la Brexit e la crisi dinastica della famiglia reale in disfacimento, con il cuore pulsante dell’ex impero alla ricerca di una sua nuova e peculiare identità mondiale, pochi – o forse nessuno – pensavano che la soluzione per tenere assieme il rimpianto della passata gloria e la ricerca di un futuro altrettanto grandioso potesse arrivare grazie alla nomina di una nuova corona, e che corona!

Non un nobile, né un politico, o un manager, o un accademico. Un’artista, un uomo in fondo di spettacolo. Un saltimbanco? Anche se fosse, non dovrebbe sorprendere: se un sedicente imprenditore che di fatto è da decenni un guitto televisivo può farsi eleggere presidente USA, nessuno dovrebbe meravigliarsi di vedere Nick Cave nuovo re del Regno Unito e di tutte le nazioni che a quello stesso capo di stato obbediscono.

Il cantautore australiano per molti è l’uomo giusto: classico ormai fino al midollo e quindi solido come una tradizione che comincia con la nascita dell’età industriale e dell’uomo moderno, snob ma di quello snobismo per nulla barocco che abbiamo noi latini e che può avere un artista maudit figlio del pragmatismo anglosassone; incastrato – lui o la sua arte, ma fa differenza? – tra la dannazione e la salvezza, tra l’estasi carnale del capitalista che domina il vapore e poi del colonialista che conquista le Indie, che scopre le delizie di mondi nuovi, ne approfitta, ne paga pegno e infine ricerca la sua salvezza nella cultura ancestrale dei testi sacri e delle musiche profane di quelle forze che ha sottomesso a sé.

Non si può dire quanto l’ultima prova di Nicola I, realizzata in collaborazione con Warren Ellis, abbiano aiutato l’elite e il popolo nella loro scelta. Di sicuro le tracce eleganti come una colonna sonora da golden age, sostenute da un uso della modernità elettronica sottile e mai chiassosa, agghindate da arrangiamenti d’archi accademici ma intrisi di sentimento, sono tutti riflessi del carattere titanico e tormentato, umano e troppo umano, che si può richiedere a chi guiderà tanti uomini e donne.

Se poi volete saperne di più sulle canzonette di “Carnage”, perché i grandi eventi del mondo vi interessano ma non troppo e preferite estraniarvi dalla realtà con l’Arte, sappiate che la prima parte di questa raccolta flirta maggiormente con il ritmo ed è dotata di una sobria ma solida impalcatura che batte il tempo, mentre la seconda è sostanzialmente un deliquio gassoso che ricorda molto “Ghosteen”.

Da Re inchiostro a Re di mezzo mondo.

PS: ovviamente quella che avete letto è un’utopia – o distopia, fate voi. Il disco però esiste, è uscito veramente.

Alessandro Scotti

 

Photo Credit: Joel Ryan