Penso di non essere stato l’unico a trovare eccessivamente pesante l’ultima parte della produzione artistica di Nick Cave. Una pesantezza sicuramente giustificata, date le vicissitudini della vita del cantautore, ma che all’orecchio di un profano può essere solo faticosamente respirata. Ci sono però momenti della vita in cui è giusto lasciarsi trasportare dalla profondità della voce di Cave. Per il sottoscritto, date le mie vicissitudini personali, il momento giusto è questo.

Fortuna vuole poi che quest’ultima sua opera, “Wild God”, sia una sorta di rinascita dalle tenebre della morte, sia sotto il profilo dei testi («Said, we’ve all had too much sorrow, now is the time for joy») sia sotto quello prettamente musicale. Se infatti le fondamenta delle composizioni sono ancora una volta in mano alle trame soffuse di Warren Ellis, in “Wild God” si respira però un’aria pop che da tempo si era persa.

L’album si divide essenzialmente in due tipologie di composizioni: la ballata (Song of the Lake, Final Rescue Attempt, Cinnamon Horses, Long Dark Night, O Wow O Wow (How Wonderful She Is), As the Waters Cover the Sea) e il pezzo più emotivo scandito da un crescendo che parte spesso dal coro (la title track, Frogs, Joy, Conversion). Entrambe tipologie di canzoni di cui il nostro è un maestro.

Aggiungiamo un’atmosfera che tende piano piano a elevarsi a cieli vicinissimi al concetto di sacro (un concetto in cui pochissimi nel mondo del rock sono riusciti ad avvicinarsi, forse Dylan, forse Reed) e il gioco è fatto. Nick Cave è rinato e noi insieme a lui.

Andrea Manenti