L’altro giorno, leggendo della morte di Harold Bloom, mi ha colpito una frase che, fatte le debite proporzioni e tutti i distinguo del caso, potrebbe essere il perfetto incipit di questa recensione: “La sua vita (di Bloom) non è stata altro che un arroccarsi sempre più in alto, nella luce”. Possiamo dire che con “Ghosteen” Nick Cave si sia approssimato a quella dimensione, coltivandone con tenacia l’approdo.

Il perché lo diciamo subito: la morte del figlio Arthur, vissuta con una sincerità disarmante, è stata letteralmente attraversata, come fosse un viaggio terribile e necessario, nel precedente “Skeleton Tree”; adesso, a testa alta, è la voglia di equilibrio a fare da bussola psicologica in un itinerario dove il lutto reprime e contrae qualunque tentativo di andare avanti. E allora la luce che vediamo è semmai quella dell’alba, accennata e di là da venire. “Everybody’s losing someone, it’s a long way to find peace of mind”. Le tenebre si sono diradate, ma l’orizzonte che guardiamo è ancora così lontano.

D’altronde è proprio la musica, orchestrale ed elettronica, strutturata come un soffice tappeto sonoro su cui Cave stende parole solo talvolta cantate, a suggerirci che siamo in un tempo soprattutto di attesa: il capobanda è il Bad Seeds Warren Ellis, abilissimo nella composizione di una sorta di drone music, architetto sommo di una cattedrale gotica, con tiepide luminescenze e voragini di buio disarmante.

Mi perdonerete se non parlo di scalette, gestazione dell’album, canzoni da inserire in possibili playlist e quant’altro; scriverne è forse impossibile (lucidamente, a ragion veduta, dico). Si possono prendere in prestito le parole dell’autore stesso, però: “Ghosteen è uno spirito migrante”. Se è così, a maggior ragione è necessario capire dove questo viaggio (emotivo, sentimentale, psichico) condurrà Nick Cave. Come poterlo, noi, accompagnare sul sentiero di una cura possibile. Solo allora, forse, ne capiremo realmente la portata.

Alberto Scuderi