L’altro giorno, leggendo della morte di Harold Bloom, mi ha colpito una frase che, fatte le debite proporzioni e tutti i distinguo del caso, potrebbe essere il perfetto incipit di questa recensione: “La sua vita (di Bloom) non è stata altro che un arroccarsi sempre più in alto, nella luce”. Possiamo dire che con “Ghosteen” Nick Cave si sia approssimato a quella dimensione, coltivandone con tenacia l’approdo.
Il perché lo diciamo subito: la morte del figlio Arthur, vissuta con una sincerità disarmante, è stata letteralmente attraversata, come fosse un viaggio terribile e necessario, nel precedente “Skeleton Tree”; adesso, a testa alta, è la voglia di equilibrio a fare da bussola psicologica in un itinerario dove il lutto reprime e contrae qualunque tentativo di andare avanti. E allora la luce che vediamo è semmai quella dell’alba, accennata e di là da venire. “Everybody’s losing someone, it’s a long way to find peace of mind”. Le tenebre si sono diradate, ma l’orizzonte che guardiamo è ancora così lontano.
D’altronde è proprio la musica, orchestrale ed elettronica, strutturata come un soffice tappeto sonoro su cui Cave stende parole solo talvolta cantate, a suggerirci che siamo in un tempo soprattutto di attesa: il capobanda è il Bad Seeds Warren Ellis, abilissimo nella composizione di una sorta di drone music, architetto sommo di una cattedrale gotica, con tiepide luminescenze e voragini di buio disarmante.
Mi perdonerete se non parlo di scalette, gestazione dell’album, canzoni da inserire in possibili playlist e quant’altro; scriverne è forse impossibile (lucidamente, a ragion veduta, dico). Si possono prendere in prestito le parole dell’autore stesso, però: “Ghosteen è uno spirito migrante”. Se è così, a maggior ragione è necessario capire dove questo viaggio (emotivo, sentimentale, psichico) condurrà Nick Cave. Come poterlo, noi, accompagnare sul sentiero di una cura possibile. Solo allora, forse, ne capiremo realmente la portata.
Alberto Scuderi
Nome e Cognome: Alberto Scuderi
Mi racconto in una frase: “Il matrimonio altro non è che quella odiosa ipoteca posta sui coglioni” Giuseppe Rovani. La frase è fortina e un conservatore come me non la condivide appieno. Tuttavia, l’avrei voluta scrivere per primo.
I miei 3 locali preferiti per vedere Musica: Paradise (Amsterdam), Ohibo (Milano), The Craftsman Jazz Club (Reggio Emilia)
Il primo disco che ho comprato: Rock is Dead (Singolo) Marilyn Manson
Il primo disco che avrei voluto comprare: Jagged Little Pill di Alanis Morisette
Una cosa di me che penso sia inutile che voi sappiate ma ve la racconto lo stesso: Ciascuno ha le sue: penso che il sapone di Marsiglia sia veramente insopportabile. Per le proprie mani, per l’ambiente in cui si spande come veleno, per la società che lo produce e per tutti coloro che si ritrovano a venderlo trasversalmente al pensionato come allo studente fuori sede sfigato che non conosce lozioni altre da applicare alle proprie falangi. Ci vorrebbe una grande petizione popolare: ah, se fossimo negli anni ’70!