packshot1-768x768A tre anni dall’ultimo lavoro in studio, il sedicesimo album di Nick Cave con i suoi Bad Seeds è inevitabilmente legato alle recenti – e tristemente note – vicende personali del cantante. Nell’estate del 2015, quando la maggior parte delle sessioni in studio per il disco è già completata, il figlio quindicenne di Cave, Arthur, perde la vita in un tragico incidente. Poco dopo Cave, insieme al fidato Warren Ellis, torna in studio, rivede tutto il materiale e quello stesso autunno completa le ultime registrazioni.

Il risultato è un disco di un’intensità spiazzante, che riecheggia per certi versi le American Recordings di Johnny Cash e quel Blackstar di David Bowie così denso di riflessioni su vita e morte. Musicalmente siamo molto vicini alla direzione intrapresa in Push the Sky Away: lentezza ponderata e arrangiamenti essenziali, che qui però abbandonano la compostezza corale del lavoro precedente per diventare ancora più scarni, ridotti ad accordi minimi di piano e archi, ossificati attorno a droni ossessivi (il singolo Jesus Alone è programmatico in questo senso). Ciò che più colpisce è sicuramente l’approccio al testo: il Nick Cave abile e consumato narratore a cui siamo abituati si fa da parte e cede il passo a un songwriting di pancia, scomposto e gutturale, e a un cantato che spesso appare spudoratamente improvvisato. Le liriche procedono per immagini criptiche (i personaggi che popolano Jesus Alone, la misteriosa Girl in Amber della canzone omonima) e si perdono in intense invocazioni, al limite del lamento (“I love you love / I love you love” in Magneto, “I need you, need you, need you” in – appunto – I Need You). Salvo poi dischiudersi, sul finale, nella voce da soprano di Else Torp che in Distant Sky evoca cieli lontani e limpidi, e in quella dello stesso Cave che nella traccia eponima in coda al disco appare rinnovato, pacificato al punto da dissolversi in una nenia di “it’s alright now”.

Skeleton Tree è senza dubbio un disco sofferto, a tratti bruciante, nel quale il Cave musicista si confronta più che mai con il Cave uomo e padre, plasmando e rinnovando la sua scrittura all’interno di un’elaborazione del lutto che non è mai semplice sfogo emotivo, ma composta sofferenza che diventa nuovo (stupendo) capitolo di una ricerca artistica ormai più che trentennale. Perché, come recita Girl in Amber, “if you want to bleed, just bleed”.

Daniele Piccoli