C’è stato un tempo in cui per i giovani inglesi Ian Brown era un dio… E ci avevano visto abbastanza bene. Senza di lui, probabilmente, non ci sarebbe stato il brit-pop, gli Oasis, i Blur. Sono passati trent’anni da allora, ma il musicista mancuniano è ancora in pista.

Se dovessi usare un solo aggettivo per descrivere questo nuovo disco, “Ripples”, sarebbe senz’ombra di dubbio “essenziale”. Sembra proprio che dopo aver riprovato recentemente la sbornia a nome Stone Roses, Ian abbia voluto lasciarsi alle spalle ogni eccesso per tentare la via della semplicità. Se fosse un album dei Rage Against the Machine, nel retro copertina troveremmo la frase: “All Sounds Made by Guitar, Bass, Drums and Vocals”… E sì, pure dalla tastiera.

Conclusasi la reunion delle Rose di Pietra, Ian Brown torna così con il suo settimo album solista, il primo in 10 anni, e dimostra ancora una volta il suo genuino talento per la scrittura di ottime melodie e riff ballabili. First World Problems, primo brano in scaletta nonché primo singolo estratto, è un lungo e ripetitivo mantra ancorato alla Madchester che fu, alla vecchia band del nostro e ai Primal Scream di “Screamadelica”: il tutto è però più lucido, meno malato. Stesso discorso si può fare per The Dream and The Dreamer, che gode anche di una chitarra funky-disco che manco il Keith Richards di “Some Girls”, per From Chaos to Harmony e il suo wah wah ipnotico e per Soul Satisfaction.

Black Roses rappresenta l’anima più rock’n’roll, con la sua scala discendente di tre-accordi-tre presi in prestito dagli Stooges, Breathe and Breathe Easy (The Everness of Now) e It’s Raining Diamonds sono due ballate acustiche, di cui la prima a dir poco toccante. La title track si appoggia a un groove che più Nineties non si può, mentre Blue Sky Day è brit pop ai massimi livelli.

La chiusura dell’album è affidata al dub trascinante di Break Down the Walls (Warm Up Jam) e il dito vi andrà da solo sul tasto “play” ancora una volta e poi ancora ed ancora.

Andrea Manenti