I Big Thief sono tornati. E questa volta non si accontentano di accarezzarti l’anima: la vogliono scorticare, accendere, rimettere insieme. Double Infinity non è solo un album, è un’esperienza spirituale che ti prende a schiaffi con una dolcezza sbalorditiva. Adrianne Lenker canta come se ogni parola fosse l’ultima prima dell’estinzione, mentre il resto della band (ormai un trio dopo l’addio del bassista Max Oleartchik) si muove come in trance, tra psichedelia folk e vibrazioni cosmiche. Hanno chiamato dieci musicisti, chiusi in studio per tre settimane come in un rituale tribale sotto il cielo di Manhattan. Il risultato? Un disco che sembra suonato dagli spiriti. Ogni pezzo è una costellazione emotiva che si schiude come un fiore sotto acido.
Dimentica le strofe canoniche, dimentica il ritornello facile: Double Infinity non vuole accompagnarti, vuole confonderti, sballarti, farti perdere la bussola del cuore per ritrovarti nudo davanti a ciò che sei davvero. “Incomprehensible” è un’apertura che spezza. Lenker canta del corpo che invecchia, della pelle che cambia, della lingua come prigione. Ma la musica non giudica, si allarga come un respiro che finalmente non trattieni più. Zither, percussioni astrali, sintetizzatori che sembrano liquidi. Laraaji (leggenda ambient) entra in punta di piedi e poi ti scaraventa nel sogno: le sue vocalizzazioni su “Grandmother” sembrano canti alieni d’amore. Un pezzo che celebra ciò che sparisce — l’amore, l’istante, la carne — e proprio per questo lo rende eterno. E poi arriva “Los Angeles”, che ti devasta con il niente. È il fantasma di un amore che ritorna, anni dopo, senza annunciarsi. Due persone che si rivedono dopo una vita e si riconoscono subito, senza bisogno di parlare. Pochi accordi, ma sembrano bastare per ricostruire un universo fatto di silenzi, sguardi, strade percorse a ritroso. “Two years feels like forever / But I know you without looking.” E ti viene da piangere, senza sapere bene perché.
Non è tutto perfetto, no. “Words” inciampa, si contorce sotto il peso di un’emozione che non sa come raccontare. “No Fear” gira su sé stessa come un mantra ossessivo, troppo semplice forse, troppo superficiale. Ma anche lì, sotto la scorza apparentemente naïf, pulsa un’urgenza reale: quella di annullare ogni confine — spazio, tempo, lingua, nazione — e tornare a un amore primordiale. Un amore che non ha forma, non ha etichetta, non ha paura. La Lenker non scrive canzoni: scrive cicatrici che mutano in resurrezioni emotive. E su “Double Infinity” (la title track), ti accorgi che tutto il disco è una preghiera laica, un tentativo disperato e lucido di dire: “Non capisco niente, ma so che amo. E forse questo basta.” “At the center of the picture / Is the one I love / Still, unmovable, unchanging.” È lì che tutto esplode. Non c’è una trama da seguire, ma un flusso emotivo che ti inghiotte. Ogni ascolto apre una porta diversa. È come stare su un ponte che collega il passato al futuro, e sentire che ogni passo che fai potrebbe cambiare il mondo.
E sì, magari non troverai il singolo radiofonico da canticchiare. Ma troverai qualcosa di meglio: una guida per sopravvivere ai giorni storti. Un balsamo per quando non sai più cosa sentire. Double Infinity non ti dà risposte, ma ti insegna a stare dentro le domande. Ti dice che si può essere persi e vivi allo stesso tempo. Che la fragilità non è una colpa, ma una forza. Che l’amore, quello vero, non ha forma né scadenza. È un’eco che ritorna, anche quando pensavi di averla dimenticata.
In un’epoca dove tutto è veloce, cinico, ottimizzato, Big Thief si mettono di traverso e ti chiedono di fermarti. Di ascoltare davvero. Di sentire senza giudicare. Double Infinity è il loro album più coraggioso, più disordinato, più umano. E forse anche il più importante. Non cambiano il loro suono: lo spalancano. Lo lasciano respirare, contaminare, dissolversi. Come la vita vera. Come le emozioni che ci spaventano. Come l’infinito che ci guarda negli occhi quando smettiamo di fingere. Chiudi gli occhi, premi play, e lascia che ti porti via.
La band porterà il disco sul palco del Circolo Magnolia il 14 giugno, segnate la data e non perdeteli.

Smemorato sognatore incallito in continua ricerca di musica bella da colarmi nelle orecchie. Frequento questo postaccio dal 1998…
I miei 3 locali preferiti:
Bloom (Mezzago), Santeria Social Club(Milano), Circolo Gagarin (Busto Arsizio)
Il primo disco che ho comprato:
Musicasetta di “Appetite for Distruction” dei Guns & Roses
Il primo disco che avrei voluto comprare:
“Blissard” dei Motorpsycho
Una cosa di me che penso sia inutile che voi sappiate ma ve la racconto lo stesso:
Parafrasando John Fante, spesso mi sento sopraffatto dalla consapevolezza del patetico destino dell’uomo, del terribile significato della sua presenza. Ma poi metto in cuffia un disco bello e intuisco il coraggio dell’umanità e, perchè no, mi sento anche quasi contento di farne parte.
