Difficile dire cosa siano, davvero, gli Stereolab. Difficile ora come trent’anni fa, quando la band anglo-francese cominciava a frullare krautrock, elettronica, pop d’autore e collage avanguardistici dentro un’impastatrice sonora che sembrava provenire da un futuro parallelo. Dopo quindici anni di silenzio in studio, Instant Holograms on Metal Film segna il ritorno ufficiale della band con un album che non si accontenta di evocare la propria leggenda, ma che rilancia, espande e (senza urlarlo) evolve. È Stereolab senza esserne una banale replica. È un ritorno in grande stile, ma che rifugge ogni retorica.
L’apertura di Aerial Troubles non potrebbe essere più emblematica: voci maschili e femminili si incrociano come in un esperimento vocale di scienza sociale; un groove ipnotico e rallentato mette subito le cose in chiaro: gli Stereolab non sono qui per aggiornare il loro suono, ma per riaffermarne l’autarchia. Se i titoli – Vermona F Transistor, Mystical Plosives, Esemplastic Creeping Eruption – sembrano quasi auto-parodie, le canzoni che li accompagnano smentiscono qualunque timore di autoreferenzialità. L’equilibrio tra pianificazione minuziosa e improvvisazione telepatica resta intatto, come nel passato. A metà di Immortal Hands un beat sintetico fa deragliare la struttura in una nuova direzione, mentre la cornetta jazz di Ben LaMar Gay dipinge un affresco tanto barocco quanto pulsante. In Melodie Is a Wound, un’elegia pop che si chiude con un’esplosione fuzz degna dei Beach Boys sotto MDMA, Sadier sembra cercare il fantasma di Mary Hansen in ogni nota, e il vuoto lasciato dalla compagna di armonie scomparsa nel 2002 aleggia come un’assenza carismatica.
Certo, la chimica vocale tra Sadier e Hansen non è replicabile, ma Instant Holograms non tenta un’imitazione: ci prova in altre direzioni. Le voci maschili di Joe Watson e Xavi Muñoz, insieme a quella femminile di Marie Merlet (ex Monade), formano un nuovo caleidoscopio corale che ha meno magia e più geometria. Se Aerial Troubles è un puzzle vocale interessante ma non trascendentale, Le Coeur et la Force stupisce per l’atipicità: una ballata elettronica alla Tomita, con lo spettro poetico di Robert Wyatt sullo sfondo.
La produzione di Cooper Crain (Bitchin Bajas) è essenziale per comprendere il carattere del disco. L’eredità della scena post-rock di Chicago e lo spettro benefico di John McEntire (che già fece miracoli in Dots and Loops) si avvertono nei marimbe, nelle linee sintetiche dal gusto retrò e nel respiro “analogico” che permea l’intero album. È un suono pulito, arioso, vintage ma non passatista.
Il disco gioca su più registri stilistici: chi cerca il krautrock filtrato con l’ironia potrà gioire della strumentale Electrified Teenybop!, mentre chi ama le deviazioni lounge-psichedeliche troverà in Transmuted Matter un piccolo gioiello di inquietudine suadente. Colour Television è forse la vetta ideologica dell’album: un attacco beffardo al potere mediatico, in forma di danza dadaista e malinconica. Ma è nel dittico If You Remember I Forgot How to Dream Pt. 1 & 2 che gli Stereolab tornano a essere messaggeri pop dell’emancipazione: la prima parte è un inno pop sofisticato alla resistenza mentale; la seconda, tra citazioni di Deleuze e Guattari, e derive cosmiche, suona come una passeggiata nei corridoi del pensiero utopico.
I testi mantengono alta la bandiera del pensiero critico e umanista. Sadier è disillusa ma mai cinica: canta “Greed is an unfillable hole” con una tristezza composta, mentre altrove intona “Je dis ‘non’ à la guerre” come un mantra dolce e intransigente. Anche nei momenti più teorici, la sua voce non perde mai calore emotivo, continuando a incarnare quel singolare mix di razionalità politica e romanticismo cosmico che è sempre stato il cuore pulsante degli Stereolab.
Instant Holograms on Metal Film non è un capolavoro rivoluzionario, né pretende di esserlo. È un album consapevole, solido, spesso incantevole, che riesce nella non banale impresa di suonare come l’idea platonica degli Stereolab. Non sorprende che la critica si sia divisa (tra il 7 di The Wire e il 4 di Record Collector), ma forse è proprio questo il segno che la band ha ancora qualcosa da dire. In un’epoca in cui molti ritorni si limitano a celebrare i fasti di un tempo, quello degli Stereolab è un ritorno vivo, sincero, carico di senso e forma.
Non è nostalgia. È resistenza sonica.

Smemorato sognatore incallito in continua ricerca di musica bella da colarmi nelle orecchie. Frequento questo postaccio dal 1998…
I miei 3 locali preferiti:
Bloom (Mezzago), Santeria Social Club(Milano), Circolo Gagarin (Busto Arsizio)
Il primo disco che ho comprato:
Musicasetta di “Appetite for Distruction” dei Guns & Roses
Il primo disco che avrei voluto comprare:
“Blissard” dei Motorpsycho
Una cosa di me che penso sia inutile che voi sappiate ma ve la racconto lo stesso:
Parafrasando John Fante, spesso mi sento sopraffatto dalla consapevolezza del patetico destino dell’uomo, del terribile significato della sua presenza. Ma poi metto in cuffia un disco bello e intuisco il coraggio dell’umanità e, perchè no, mi sento anche quasi contento di farne parte.