C’è una scena che potrebbe appartenere a un racconto di Raymond Carver, e invece è il cuore pulsante di Strawberry, il nuovo album di Robert Forster: lui in cucina, in vacanza, dopo una nuotata. Davanti a sé, una ciotola di fragole irresistibili. Dovevano essere condivise, ma sono troppo buone. Le mangia tutte. Poi afferra la chitarra. E nasce una canzone. Sembra poco, ma da sempre Forster costruisce mondi con dettagli minimi, trasforma il banale in mitologia domestica. E con questo nono album solista – forse il più gioioso della sua carriera – ci invita a morderne il succo dolce-amaro con lui.
Per chi non lo conoscesse, Robert Forster è uno dei più raffinati cantautori viventi, dalla leggendaria esperienza con i Go-Betweens, alla carriera solista segnata da classe e coerenza, ha sempre coltivato uno stile d’autore sobrio e letterario, che oggi raggiunge un nuovo apice narrativo con Strawberry. A 67 anni, Forster ha ancora molto da dire – e lo fa con ironia, grazia e uno sguardo mai banale sulle piccole (grandi) storie della vita.
A differenza del precedente The Candle And The Flame, segnato dalla malattia della moglie Karin Bäumler, questo disco nasce da un momento più leggero, quasi liberatorio. Lo dice lui stesso: “meno confessionale, più orientato ai racconti”. Così le canzoni si popolano di personaggi, incontri fortuiti, storie d’amore improbabili e struggenti. Una galleria di piccoli film sonori, girati con mano lieve ma sicura.
L’iniziale Tell It Back To Me è un affresco fulminante su un amore impossibile tra un professore inglese e una bohémienne francese: “I was corporate, you were folk”, canta Forster con impassibile romanticismo. Breakfast On The Train è invece un piccolo capolavoro di scrittura: otto minuti di storia d’amore estemporanea tra due ex compagni di scuola, finiti per caso nello stesso pub in Scozia dopo una partita di rugby. Il pezzo cresce, si infiamma, e sfoggia quello che forse è il più memorabile “fuck” mai pronunciato in una canzone pop. Dylaniano nel ritmo, ma senza il melodramma. Solo umanità pura.
Foolish I Know affronta un tema delicato con una tenerezza disarmante: un’attrazione non ricambiata per un amico eterosessuale. Qui, Forster tocca forse una delle vette emotive della sua carriera, senza mai scivolare nella retorica. Il suo segreto? Un’empatia rara, una capacità di raccontare i sentimenti senza gridarli.
Ma Strawberry è anche suono. Registrato a Stoccolma con una nuova band svedese, l’album si presenta più arioso e colorato del solito. Merito anche del produttore Peter Morén (Peter, Björn and John), che accompagna Forster in un viaggio musicale tra folk, glam, rockabilly e accenni jazzati. La title track, un delizioso duetto con Bäumler, è una serenata jazz age che celebra l’amore con leggerezza e gratitudine. Good To Cry, con la sua andatura rockabilly, invita invece a lasciar andare il dolore: “It’s good to cry”, canta Robert, con una sincerità che abbraccia e consola.
Chiude il disco Diamonds, un pezzo sorprendente che parte in punta di piedi e poi esplode in sax free-jazz, chitarre distorte e perfino falsetti inediti. Una coda inaspettata e coraggiosa, che spiazza e incanta. Forster non ha paura di cambiare pelle, anche a costo di infastidire qualcuno: “Some of these songs might give people the shits,” ha ammesso con il solito humour. Ma a questo punto, non deve dimostrare più nulla a nessuno.
Strawberry non è solo un disco riuscito: è un invito a vivere con pienezza, a non temere il cambiamento, a trovare bellezza nel quotidiano. È la musica di un uomo che ha visto il peggio, ma ha scelto di rispondere con dolcezza, intelligenza e un pizzico di follia. Non è mai stato come gli altri, e per fortuna.
Se non conoscete Robert Forster, è il momento giusto per iniziare. E se lo conoscete già, Strawberry è la conferma che alcuni frutti – anche se maturi – possono ancora sorprendere.

Smemorato sognatore incallito in continua ricerca di musica bella da colarmi nelle orecchie. Frequento questo postaccio dal 1998…
I miei 3 locali preferiti:
Bloom (Mezzago), Santeria Social Club(Milano), Circolo Gagarin (Busto Arsizio)
Il primo disco che ho comprato:
Musicasetta di “Appetite for Distruction” dei Guns & Roses
Il primo disco che avrei voluto comprare:
“Blissard” dei Motorpsycho
Una cosa di me che penso sia inutile che voi sappiate ma ve la racconto lo stesso:
Parafrasando John Fante, spesso mi sento sopraffatto dalla consapevolezza del patetico destino dell’uomo, del terribile significato della sua presenza. Ma poi metto in cuffia un disco bello e intuisco il coraggio dell’umanità e, perchè no, mi sento anche quasi contento di farne parte.