Lawn, il duo indie rock di New Orleans, ritorna con *God Made The Highway*, il quarto album che segna una nuova fase del gruppo. Se nei dischi precedenti il loro suono sembrava più legato alle radici del post-punk e dell’indie rock, questa volta i Lawn si fanno più sottili, più sfumati, più maturi. È un lavoro che affonda le mani nella melodia e nelle sonorità lo-fi, ma con un’attitudine sleek che fa brillare ogni riff, ogni basso, ogni voce. Il risultato è un disco che si sente fresco, ma anche stratificato e complesso, dove i temi della crescita, della disillusione e della ricerca di sé emergono in ogni angolo. Quello che colpisce subito è la capacità del duo di fondere la loro scrittura in qualcosa di unico, pur rimanendo saldamente radicati nelle loro influenze.
La dinamica tra i due membri di Lawn, Mac Folger e Rui De Magalhães, è sempre stata una delle forze del gruppo, e in *God Made The Highway* questo legame sembra raggiungere la sua forma più perfetta. Anche se i due sono separati geograficamente (De Magalhães a Chicago e Folger a New Orleans), la loro collaborazione è cresciuta grazie alla tecnologia, ai memo vocali e alle sessioni in studio che hanno dato vita a uno degli album più coesi della loro carriera. I due hanno imparato a lavorare a distanza, senza mai perdere il filo della connessione che li unisce, e il risultato è che il loro suono, che prima sembrava quasi un puzzle di stili diversi, ora suona finalmente come un’unica entità, un gruppo che ha trovato la propria voce.
Il disco si apre con “Water”, un brano che ti avvolge subito con un’atmosfera calma, quasi eterea, ma con la giusta dose di inquietudine. L’introduzione di *God Made The Highway* ti fa sentire come se stai scivolando lungo una strada, in cerca di qualcosa, ma senza sapere bene cosa. La canzone mescola elementi di Americana e indie rock, e ci porta nel mondo dei Lawn, dove il jangle-pop si fonde con un qualcosa di più oscuro e scontroso. Non è un inizio esplosivo, ma è intenso, come una promessa che lentamente prende forma. Con “Lonely River Blues”, il disco comincia a prendere un respiro più ampio. Qui, le voci di Folger e De Magalhães sono messe a fuoco, mescolandosi in un’armonia che è tanto malinconica quanto coinvolgente, pur mantenendo quella vena disincantata che caratterizza da sempre il gruppo.
Uno dei punti di forza di *God Made The Highway* è proprio la varietà. La band non si limita a una sola dimensione sonora, ma esplora diversi territori, passando dal power-pop a momenti più graffianti, senza mai perdere la coesione. “Davie”, per esempio, è uno dei brani più potenti del disco, con una chitarra che taglia come un coltello e un ritmo che spinge in avanti, mentre “Barroom Wonder” fa uno step indietro, abbracciando una forma più melodica, ma sempre con quel tocco di distacco che fa dei Lawn una band fuori dal comune. A questo si aggiungono “Nowhere Walkin'” e “Sports Gun”, che sono tra i brani migliori dell’album, con riff taglienti e bassi inarrestabili che mantengono alta l’intensità del disco, senza mai tradire il suo spirito di ricerca.
Ma la vera bellezza di *God Made The Highway* sta nel modo in cui Folger e De Magalhães riescono a mescolare le loro voci e le loro diverse sensibilità. Folger ha una scrittura più sognante, più aperta alla melodia, e questo è evidente in brani come “History Lesson” e “Nowhere Walkin'”, dove il suo tono di voce risuona più ampio e armonioso. De Magalhães, d’altra parte, è più ruvido, più diretto. Il suo approccio è più parlate, quasi parlato, che dà una scossa alla traccia, rendendo il suono più dinamico e intrigante. È interessante notare come l’album riesca a mantenere un equilibrio tra queste due anime, passando da momenti più delicati a esplosioni di energia senza mai perdere il filo conduttore, che è una scrittura intelligente e mai banale.
L’alchimia tra i due crea una tensione che è una delle cose più affascinanti di *God Made The Highway*. È un disco che ti tiene sulle spine, che ti fa sentire come se stessi attraversando un paesaggio emotivo in costante cambiamento. È pieno di quei momenti che ti sembrano familiari, ma non nel modo in cui te li aspetteresti. Le liriche esplorano temi come la frustrazione, il passare del tempo, l’alienazione, ma lo fanno in un modo che non è mai scontato. “Pressure”, per esempio, con la sua voce asciutta e distaccata, ti fa sentire quella sensazione di disillusione e di resistenza che ti accompagna nel quotidiano. C’è una qualità quasi voyeuristica nella musica dei Lawn, che ti fa sentire come se stessi spiare qualcosa di intimo, ma allo stesso tempo universalmente riconoscibile.
La copertura visiva dell’album, con l’immagine di un paesaggio suburbano e desolato, è perfetta per ciò che *God Made The Highway* rappresenta. Una sorta di riflessione su una civiltà che ha promesso molto, ma che si è ridotta a un’ombra di sé stessa. La strada, come metafora, appare come un percorso di ricerca, ma anche come una trappola, un luogo dove l’illusione di progresso e felicità sembra svanire mentre ci si addentra.
In definitiva, *God Made The Highway* è un disco che si apre e si chiude come una strada lunga e tortuosa. Non è un album che ti prende al primo ascolto, ma è uno che cresce con il tempo, con ogni ascolto che svela nuove sfumature. I Lawn si sono distaccati dalla scena post-punk che li ha visti crescere, evolvendo in una band che, pur mantenendo la loro essenza, ha trovato una dimensione completamente nuova. Non è facile trovare dischi indie rock con un suono così distintivo eppure capace di abbracciare diverse influenze con una naturalezza così disarmante. I Lawn sono riusciti a trovare una strada che li porta oltre il genere, e questo, in un’era in cui tutto sembra essere già stato detto, è un risultato che vale la pena celebrare.

Smemorato sognatore incallito in continua ricerca di musica bella da colarmi nelle orecchie. Frequento questo postaccio dal 1998…
I miei 3 locali preferiti:
Bloom (Mezzago), Santeria Social Club(Milano), Circolo Gagarin (Busto Arsizio)
Il primo disco che ho comprato:
Musicasetta di “Appetite for Distruction” dei Guns & Roses
Il primo disco che avrei voluto comprare:
“Blissard” dei Motorpsycho
Una cosa di me che penso sia inutile che voi sappiate ma ve la racconto lo stesso:
Parafrasando John Fante, spesso mi sento sopraffatto dalla consapevolezza del patetico destino dell’uomo, del terribile significato della sua presenza. Ma poi metto in cuffia un disco bello e intuisco il coraggio dell’umanità e, perchè no, mi sento anche quasi contento di farne parte.
