Ci sono album che nascono da esperienze di vita ordinarie, e poi c’è A Danger to Ourselves di Lucrecia Dalt. Un disco che nasce dalla caduta, quella letterale, fisica, che ha arrestato il battito del suo cuore per otto secondi il 7 luglio 2025, e dalla caduta metaforica che Dalt descrive come un atto di abbandono, di resa alla bellezza che lo circonda. Se i suoi lavori passati erano esperimentali e surreali, in A Danger to Ourselves la colombiana porta l’ascoltatore in un terreno sconosciuto, vulnerabile, e crudo. Un viaggio, questo, che è sia nella carne che nell’anima, tra sensualità, perdita, morte e rinascita. Ma anche un disco che si interroga sul desiderio, sul pericolo di perdersi in esso e sul rischio che l’amore, se non controllato, può diventare un pericolo per noi stessi.
La sua carriera finora è stata un caleidoscopio sonoro, da synth pop elettronico a astrazioni ambient, passando per territori più sperimentali dove il concetto di “altri mondi” e di entità mitiche ha sempre prevalso. Ogni album era un atto di distacco, una creazione che metteva una certa distanza tra l’artista e la propria vita personale. A Danger to Ourselves, però, è diverso: qui la barriera si abbatte, la distanza sparisce e Lucrecia Dalt si espone come mai prima d’ora. È l’album del cuore fermo e della rinascita. Un album che esplora la profondità dell’amore e della sofferenza, dell’estasi e della morte, con la stessa intensità.
Il disco si apre con “cosa rara”, un duetto con il compagno David Sylvian, che è un’indagine apparentemente leggera ma in realtà implacabile sulla lussuria. La base ritmica è affidata ad Alex Lázaro, che ha già collaborato a ¡Ay!, il precedente lavoro di Dalt, e costruisce un tappeto sonoro pulsante di loop che si contraggono e si espandono, creando tensione e rilascio in modo quasi organico. Questo primo pezzo sembra leggero e ballabile, ma nasconde il suo lato oscuro: un’energia erotica che si gonfia e si svuota, costruendo un climax che alla fine sfocia in un incidente d’auto, con la voce ruvida di Sylvian che narra il momento del dopo, una specie di lucidità post-coitale che si mescola a una sensazione di disorientamento. È il momento in cui il corpo, dopo aver raggiunto l’apice del desiderio, si trova nel vuoto, nell’assenza.
Ma l’album, con le sue esplorazioni sonore, non è solo il racconto di un incontro fisico o di una relazione; è anche un’esplorazione profonda del desiderio stesso come forza che distrugge e ricostruisce. La morte, la rinascita, la bellezza del mondo che ci circonda: Dalt è un’artista che ha sempre avuto un piede nel soprannaturale, ma ora esplora un altro tipo di dimensione, quella dell’amore e del dolore. La morte che l’ha sfiorata nel 2025 è il catalizzatore che porta questo disco a un livello più profondo, più vulnerabile e personale.
“caes”, il terzo singolo, è una testimonianza di questo nuovo approccio. Il titolo fa riferimento a una caduta, quella tanto letterale quanto metaforica che Dalt ha vissuto. La canzone stessa è una riflessione sulla sublimità che si può raggiungere, appunto, solo attraverso l’atto di cadere. Il brano, che vede la partecipazione della vocalist Camille Mandoki (Amor Muere), è una fusione ipnotica di armonie e tensioni. Dalt ha dichiarato che la canzone trae ispirazione da due storie tragiche, quella di Ana Mendieta e di Evelyn McHale, le cui fatalità sono state immortalate nell’arte e nella fotografia. Il tema della caduta non è solo fisico, ma anche spirituale, come se si stesse per immergersi in un altro piano dell’esistenza, in un momento che trascende la realtà quotidiana.
La copertura di queste storie di morte e bellezza si riflette nel modo in cui Dalt fa esplodere le emozioni nei suoi testi. Non più creature mitiche o distanti concetti esoterici, ma verità vere, spesso dolorose. Le parole in A Danger to Ourselves sono dichiarazioni, o meglio, ode alla vita e alla morte, all’amore e al desiderio, a ciò che ci fa sentire vivi anche mentre rischiamo di essere inghiottiti da esso. In un certo senso, questo è l’album del fallimento, ma anche della liberazione che viene proprio dal cedere al vuoto.
Musicalmente, il disco è un miscuglio di elementi elettronici, che vanno dal minimalismo al noise, dall’ambient alla glitch music. Il suono è contemporaneo, ma non si fa mai troppo sopraffacente. Dalt, che ha sempre amato l’uso delle atmosfere rarefatte, qui regala un album che lascia spazio per respirare, per riflettere, per sentire. Le tracce si sovrappongono come strati, creando paesaggi sonori da cui emerge l’emotività cruda della cantante. C’è una sorta di resistenza in ogni nota, una volontà di esplorare anche ciò che può sembrare imperdonabile, ma alla fine c’è un senso di catarsi.
Uno degli aspetti più interessanti di A Danger to Ourselves è che Dalt riesce a fondere sperimentazione e introspezione senza che l’una prevalga sull’altra. Non si tratta solo di un esercizio di stile, ma di una vera e propria esplorazione emotiva e spirituale che si manifesta in un sound più nudo, vulnerabile. Ogni brano è come una finestra aperta su una dimensione più profonda, come se ogni nota suonata fosse un atto di resa a qualcosa di più grande.
Il percorso di Lucrecia Dalt è sempre stato caratterizzato da un’evoluzione costante, ma con A Danger to Ourselves raggiunge il culmine di una ricerca personale, sonica ed emotiva. Le sue canzoni non sono più solo un riflesso di un altro mondo, ma la rappresentazione di un’interiorità profonda che non ha paura di mostrare le sue cicatrici. È un album sul rischio, sulla caduta e sulla bellezza che emerge da essa, una testimonianza di come l’amore possa essere allo stesso tempo la cosa più pericolosa e liberatoria che possediamo.
In definitiva, A Danger to Ourselves non è solo un album, è un atto di coraggio. Un invito a perdersi in qualcosa di grande e travolgente. Un rischio che, in fondo, vale la pena di affrontare.

Smemorato sognatore incallito in continua ricerca di musica bella da colarmi nelle orecchie. Frequento questo postaccio dal 1998…
I miei 3 locali preferiti:
Bloom (Mezzago), Santeria Social Club(Milano), Circolo Gagarin (Busto Arsizio)
Il primo disco che ho comprato:
Musicasetta di “Appetite for Distruction” dei Guns & Roses
Il primo disco che avrei voluto comprare:
“Blissard” dei Motorpsycho
Una cosa di me che penso sia inutile che voi sappiate ma ve la racconto lo stesso:
Parafrasando John Fante, spesso mi sento sopraffatto dalla consapevolezza del patetico destino dell’uomo, del terribile significato della sua presenza. Ma poi metto in cuffia un disco bello e intuisco il coraggio dell’umanità e, perchè no, mi sento anche quasi contento di farne parte.
