Ci sono alcuni album che ti lasciano a bocca aperta con i loro artifici sonori e testuali, con le loro schizofrenie musicali, con le sperimentazioni imprevedibili e sorprendenti. Beh, “In the Shape of a Storm”, il nuovo disco di Damien Jurado, non è tra questi. Le canzoni che lo abitano non sono fresche, ma sono recuperate dagli scantinati di vent’anni di carriera. E Jurado non le tira neanche a lucido, si limita a soffiare via con leggerezza i granelli di polvere accumulati, senza grandi ritocchi e incipriate, l’essenziale e nulla di più. Tant’è che il tutto gli richiede un paio di ore di tempo, una cosa che al giorno d’oggi ci sembra impossibile.
“In the Shape of a Storm” è un disco essenziale, e proprio per questo straziante e intenso. Intimo. Un album voce e chitarra, la radice estrema e scarnificata della musica. Ed è proprio lì che si distingue chi è capace di farla perché è dotato di un vero talento, da chi invece non ci riesce. Damien non ci ha deluso nemmeno stavolta. In questo quattordicesimo lavoro del geniale musicista di Seattle, si racconta l’amore nelle sue sfumature, senza voler cercare una soluzione di continuità, una razionalità, ma semplicemente regalando fotografie dell’immensa varietà di emozioni e sensazioni che questo può produrre, nel bene e nel male. Dieci brani così delicati da imprimersi con morbidezza nell’anima, con le loro parole fragili e accurate, mai percepite come forzate o leziose.
“In the Shape of a Storm” è una confessione sussurrata all’orecchio, pura e senza filtri, perché “there is nothing to hide”, come canta Damien stesso nella prima traccia Lincoln. Certo, non è un disco che sorprende, tradisce o innova, non scorreranno fiumi di inchiostro al riguardo. Ma Damien Jurado, dall’alto dei suoi 46 anni e dei suoi più di vent’anni di carriera nella musica, può permettersi di fottersene di ricercare il più, l’oltre, l’extrasuperiper, e fare quello che gli viene bene, da sempre e per sempre. E noi, anziché rosicare o cercare il pelo nell’uovo come al nostro solito, dovremmo forse semplicemente chiudere gli occhi e respirarlo, assaporarlo nella sua riservata, splendente e autentica bellezza, e alla fine finiremo per dirgli – come lui ci canta – “Now you’ve got me where you want me to be”.
Giulia Zanichelli

Mi racconto in una frase
Famelica divoratrice di musica e patatine (forse più di patatine), diversamente social e affetta dalla sindrome di “ansia da perdita” (di treno, chiavi di casa, memoria
e affini).
I miei 3 locali preferiti per ascoltare musica
Auditorium Parco della Musica (Roma), Locomotiv Club (Bologna), Circolo Ohibò (Milano).
Il primo disco che ho comprato
“Squérez?” dei Lunapop, a 10 anni. O forse era una cassetta.
Comunque, li ho entrambi.
Il primo disco che avrei voluto comprare
“Rubber Soul” dei Beatles.
Una cosa di me che penso sia inutile che voi sappiate ma ve la racconto lo stesso
Porto avanti con determinazione la lotta per la sopravvivenza della varietà linguistica legata alla pasta fresca
emiliana: NON si chiama tutto “ravioli”, fyi.