Nell’approcciarsi a “Ode to Joy” dei Wilco, il sospetto, che diventa paura nel cuore degli ammiratori e speranza in quello dei detrattori, era quello di ritrovarsi tra le mani un capitolo più che mai interlocutorio, di quelli che arrivano puntuali quando le carriere si allungano e l’inventiva, la tenacia e la grinta degli albori ingrigiscono, come del resto è capitato ai capelli di Jeff Tweedy.

Indizi a tal proposito potevano provenire dai lavori più recenti della band, apprezzati sì ma non strabilianti, dai percorsi alternativi e dai progetti solisti intrapresi dai singoli membri del gruppo, dalle prime anticipazioni che preannunciavano qualcosa di già sentito. Un copione scritto per tante band, lo sappiamo, ma che non si addice certo ai Wilco, semmai noti, oltre che per l’inestimabile apporto al canzoniere americano, per non aver mai regalato veri e propri passaggi a vuoto. Una storia, la loro, priva di capitoli interlocutori, proprio come questo “Ode to Joy”.

L’undicesimo disco dei Wilco è un’opera che incarna quindi l’essenza della band, sia dal punto di vista del racconto che da quello prettamente compositivo: non contiene canzoni minori e anzi ognuna di esse racchiude e riassume un aspetto del passato artistico di Tweedy e soci, che sanno arredarle con mestiere nonostante il continuo processo di sottrazione.

Troviamo così il pop-rock divertito e divertente della sincopata Everyone Hides che ha contraddistinto i dischi recenti, i sovversivi turbamenti della chitarra di Nels Cline in We Were Lucky, i ritornelli agrodolci delle post-beatlesiane White Wooden Cross e Hold Me Anyway, la puntualità tellurica di Glenn Kotche specialmente nell’iniziale Bright Leaves, la cristallina vena melodica di Jeff Tweedy nell’azzeccatissimo singolo di lancio Love Is Everywhere (Beware) e la tradizionale malinconia in chiusura d’opera affidata ad An Empty Corner.

Dal punto di vista formale, “Ode to Joy” è un disco che mantiene in tutta la sua durata un sound coerente e ben delineato, la cui parte del leone la fanno chitarra acustica e batteria quasi lunare. Cionondimeno un sound ben lontano dall’essere scarno, minimale e sbilanciato come da alcuni erroneamente descritto, grazie alle tante piacevoli insidie acustiche che sa regalare a chi aguzza l’orecchio.

La band è altresì corale e coesa nelle esecuzioni, su disco come in sede di live, come già descritto su queste pagine sulla loro data milanese al Fabrique, cosa che allontana il sospetto di trovarci di fronte a “un altro disco solista di Tweedy, ma con i Wilco come backing band”.

“Ode to Joy”, dalla copertina opaca e indefinita in controtendenza con quelle allestite per i precedenti “Star Wars” e “Schmilco”, che urlavano attenzioni tali da distrarre l’ascolto, è un disco che si ingigantisce con gli ascolti e ci riconsegna una band in stato di grazia. Non che fosse mai venuta meno, beninteso: sfidiamo a trovare artisti che in 25 anni di carriera non abbiano mai fatto tonfi clamorosi, flop, buchi nell’acqua.

Pensateci, passate in rassegna gli almanacchi e i bigini sulla storia del rock, poi contante le dita che spuntano dalla vostra mano e vi accorgerete che probabilmente i Wilco sono uno dei più grandi gruppi di sempre proprio per questo motivo: non aver mai scritto veri e propri capitoli interlocutori e di conseguenza, se li amate, aver sempre scacciato la paura dai vostri cuori. Come si confa a un Inno alla Gioia.

Andrea Fabbri