Oh, che bellezza. Il nuovo disco dei Wilco, il tredicesimo in quasi trent’anni di carriera, è atterrato come manna dal cielo in un’annata che fino a questo momento, siamo sinceri, ci ha regalato ben pochi album davvero degni di nota. “Cousin” è uno di questi, perché fin dal primo ascolto risulta un’opera importante e per certi versi inattesa. Dico inattesa in quanto mi aspettavo che si adagiasse sul terreno ancora fertile preparato dal precedente “Cruel Country”, un lavoro mastodontico e ingiustamente poco celebrato, che sguazzava nel brodo primordiale della band fino a mostrarne le radici. Al contrario, ci ritroviamo tra le mani un album che riporta i Wilco nell’universo dell’alternative, nel senso più generale del termine.
Il merito è anche di Cate Le Bon, cantautrice gallese qui nel ruolo di produttrice. Jeff Tweedy e soci l’hanno voluta in cabina di regia dopo aver fatto tutto da soli dal 2004 a questa parte. Non è un caso. Una collaborazione esterna come questa, infatti, pur non sconvolgendo l’asset del gruppo, ha iniettato nuova linfa, solleticato la creatività e spazzato via il rischio di ripetersi. Se poi si pensa che Le Bon ha già lavorato con artisti come Deerhunter (negli ultimi due album) e John Grant (nell’ottimo “Boy From Michigan” del 2021), appare chiara la direzione che i Wilco hanno inteso prendere con “Cousin”. Ecco allora che il loro suono è tornato a sporcarsi di indie-folk, a insinuarsi tra le crepe delle chitarre, consegnandoci dieci brani praticamente perfetti e confortanti anche in chiave futura.
Partiamo dal brano di apertura. Chissà di chi è stata l’idea del ticchettio che scandisce il tempo in Infinite Surprise. Per l’intera durata della canzone (o quasi), le bacchette di Glen Kotche riproducono il suono di una sveglia caricata a molla. Una trovata che da un lato rassicura l’ascoltatore, in una sorta di rumore bianco per orecchie abituate allo sfrigolio elettrico del rock, e dall’altro imprime il giusto phatos nel tipico climax wilchiano sul modello già consolidato del capolavoro Misunderstood.
L’atmosfera, torbida ma in senso buono, è quella del dormiveglia che precede le prime luci del mattino. Qualcosa che ha molto a che fare con Lou Reed, ma meno sporco e claudicante. Questo clima autunnale e chiaroscurale pervade l’intero album, e in particolare la successiva Ten Dead: un’altra perla destinata ad arricchire il catalogo già succulento dei sei di Chicago, nonché traccia dalle tinte socio-politiche ispirata a una tragica notizia sentita alla radio. Batteria come sempre sublime, affiancata a un basso trascinato e un piano che detta la linea.
“Cousin” dà il meglio di sé nella prima parte. E allora si prosegue con la struggente Leeve, una ballata in minore in cui la voce di Tweedy si fa ancora più fragile (“I love to take my meds, like my doctor said”, canta nella seconda strofa), per salire di intensità soltanto nella successiva Evicted, singolo orecchiabilissimo. Qui si parla ancora d’amore, ma di un amore turbolento, sottratto, anzi sfrattato. Poi il disco fila via liscio, senza una sbavatura che sia una, tra il meraviglioso arpeggio di A Bowl And A Pudding e la marcetta della title-track, i synth che di nascosto danno qua e là una lucidata di nero e un finale in crescendo nella più luminosa Meant To Be.
Non vorrei esagerare, ma escludendo il già citato “Cruel Country”, che rappresenta un episodio a sé stante nella discografia della band, siamo di fronte al miglior disco dei Wilco degli ultimi dieci anni. Sicuramente più ispirato di “Ode To Joy” e assolutamente più intenso di “Schmilco”. Un piacere per le orecchie, che sfocia nel piacere del cuore grazie al livello altissimo del songwriting di Jeff Tweedy. Un autore incredibilmente fecondo, che affiancato da compagni di viaggio straordinari continua a consegnarci pezzettini del suo mondo. Oh, che bellezza. Non ci resta che ringraziare.
Paolo
Mi racconto in una frase:
Gran rallentatore di eventi, musicalmente onnivoro, ma con un debole per l’orchestra del maestro Mario Canello.
I miei tre locali preferiti per ascoltare musica:
Cox 18 (Milano), Hana-Bi (Marina di Ravenna), Bloom (Mezzago, MB)
Il primo disco che ho comprato:
Guns’n’Roses – Lies
Il primo disco che avrei voluto comprare:
Sonic Youth – Daydream Nation
Una cosa di me che penso sia inutile che voi sappiate ma ve la racconto lo stesso:
Ho scritto la mia prima recensione nel 1994 con una macchina da scrivere. Il disco era “Monster” dei Rem. Non l’ha mai letta nessuno.