Non scherziamo, io resto qui a godermi il concerto. Ma che volete? Andate a bervi le vostre birre, a trastullarvi davanti a qualche film di dubbio gusto. Prego, fate pure. Io non mi muovo. È il 4 ottobre 2019, il tempo è ancora buono e fuori la gente urla, mi dà fastidio. Il live dei Wilco è iniziato da un po’. Dal 19 settembre, per la precisione. No, non è finito. Stanno ancora suonando. Sì, ma voi uscite, non c’è mica problema. Ci vediamo dopo, tranquilli, mi trovate qui sul divano. Sì, con gli occhi chiusi, come un pirla. E allora? I pirla siete voi, sappiatelo. Vabbè, ciao.
Bene, allora mi rivolgo a voi altri. Voi che in questo momento siete sul divano, a letto, sul metrò, dove vi pare. Olè, chiudete quei benedetti occhi e iniziate ad ascoltare anche voi. Lo sentite? Quello è Jeff Tweedy che si schiarisce la voce prima di salire sul palco. Fa ridere, no? Sembra uno di quei bootleg registrati su cassetta. Eppure è tutto così vero, naturale, soffice. Guarda guarda? C’è Nels Cline già pronto con la chitarra. E poi John Stirrat, quel grandissimo batterista di Glenn Kotche, Mikael Jorgensen e il mitico Pat Sansone. Perfetto, sono tutti pronti, si può iniziare.
Sentite qui, attaccano con Bright Leaves e Before Us. Ossignore, state sereni. Sono due pezzi del nuovo album “Ode to Joy” (in uscita proprio oggi), per questo non li conoscete ancora. Non male però, ammettetelo. Forse un po’ troppo pacati, ma va bene così. Adesso però si fa sul serio: I’m Trying to Break Your Heart e War on War. Rimanete sempre concentrati, perché arriveranno altre stilettate al cuore. Ma concedetemi qualche spoiler, a breve suoneranno Handshake Drugs a How to Fight Loneliness. Non dico altro. Anzi no, volete sapere qual è la canzone in scaletta che vi sorprenderà di più? È Box Full of Letters, una delle mie preferite del loro primo disco.
Ok, basta. Vi lascio comodi in platea. Non vi vedo, ma so che state godendo. Perdonate l’espressione, ma parlo per sentito dire. Sì, insomma, ho sentito dire che la perfezione, intesa come termine ultimo oltre il quale non si può più migliorare, si raggiunge solo con l’orgasmo. Beh, se ho fatto bene i conti, la musica dei Wilco fa lo stesso effetto. Sono impeccabili, perfetti appunto. E quindi da orgasmo. Non so se ve ne state accorgendo, ma nel loro live non c’è nulla fuori posto. Nessuna sbavatura, nessuna nota suonata in più del dovuto. Nemmeno un accenno di backing tracks. A proposito, l’avete ascoltata bene Via Chicago?
Eccoli lì, i nostri Wilco. Corrono a meraviglia tra le praterie del folk, dell’alt-country, dell’indie-rock, come in quelle inquadrature dall’alto nelle pubblicità delle automobili. Rettilineo, curva a gomito, stacco di camera sul cerchio in lega e frenata nello spiazzo vicino al ranch. Schermata nera finale e payoff in sovrimpressione: “Wilco, eleganza in movimento dal 1995”. Cagata, lo so, ma era tanto per rendere l’idea. No aspetta… Ecco che arriva Impossible Germany, un altro classico. Ah, un avviso ai fanatici delle scalette, questo è l’unico brano della serata tratto da “Sky Blue Sky”. Tanto basta per farcelo toccare, quel cielo: sali in sella alla chitarra di Nels Cline e spicchi il volo sul suo splendido assolo finale.
Ma tenete ancora gli occhi chiusi, almeno per qualche minuto, perché poi sarete costretti a riaprirli e a strizzarli per benino. Per il momento ascoltatevi altre due new entry dal nuovo album. Parliamo di Love is Everywhere (Bewere) ed Everyone Hides. La prima è una ballata in perfetto stile Wilco, un inno all’amore che in pochi riuscirebbero a scrivere con la stessa delicatezza. La seconda, costruita su un’attenta punteggiatura tra chitarra e batteria, è invece la divertita confessione di un’amara verità. Che dite, vi piacciono?
Applausi, ultima birretta fresca e ritorno sul palco come da programma. Ecco, ora sistematevi bene, è giunto il momento che vi avevo preannunciato. Tanto lo sapete anche voi che manca un pezzo fondamentale, quello con cui molto probabilmente vi siete innamorati di questa band. Misunderstood parte sghemba calando subito il sipario sull’apparente serenità diffusa in sala. È il ritratto di un artista tormentato, con le ferite ancora aperte per la fine degli Uncle Tupelo e un’irrefrenabile voglia di riscatto. Quelle stesse incomprensioni si riflettono da sempre sull’ascoltatore, a sua volta fragile, turbato, stanco di chiedere grazie a chiunque.
La sentite la voce di Jeff? «There’s a party there that we ought to go to, if you still love rock and roll», canta malinconico il nostro beniamino. Un dubbio buttato lì come un macigno sullo stomaco. Quasi un’accusa, una provocazione a cui sei chiamato a ribattere ad ogni costo. Perché va bene tutto, ma i grandi amori restano sempre intatti. Allora butti giù un bel respiro e rispondi gridando il verso successivo all’unisono con Jeff: «You still love rock and roll!». Che non sai se è un grido di battaglia, un brivido lungo la schiena o una speranza dura a morire. L’unica cosa che sai è che quella frase la devi urlare, e con te la urlerà anche chi è seduto al tuo fianco.
È in questo esatto istante, mentre puntate ancora il ditino al cielo, che i vostri occhi si gonfiano di lacrime fino ad aprirsi a fessura. Quell’umido sguardo sulla realtà vi farà ripiombare sul divano, in camera da letto, seduti in metrò. Nulla di grave, per carità. Anzi, viva la quotidianità. Viva le birre in compagnia e le serate passate a trastullarsi davanti a qualche film di dubbio gusto. Ma sappiate che in qualunque istante vogliate, i Wilco ricominceranno a suonare solo per voi. Perché le loro canzoni sono capaci di entrarci dentro e restarci avvinghiate. Basta concentrarsi un pochino e il gioco è fatto. Un altro giro?
Paolo
Mi racconto in una frase:
Gran rallentatore di eventi, musicalmente onnivoro, ma con un debole per l’orchestra del maestro Mario Canello.
I miei tre locali preferiti per ascoltare musica:
Cox 18 (Milano), Hana-Bi (Marina di Ravenna), Bloom (Mezzago, MB)
Il primo disco che ho comprato:
Guns’n’Roses – Lies
Il primo disco che avrei voluto comprare:
Sonic Youth – Daydream Nation
Una cosa di me che penso sia inutile che voi sappiate ma ve la racconto lo stesso:
Ho scritto la mia prima recensione nel 1994 con una macchina da scrivere. Il disco era “Monster” dei Rem. Non l’ha mai letta nessuno.