Chiamiamola crisi di mezza età. Wilco a parte, Jeff Tweedy non è mai stato così prolifico: quattro dischi solisti in quattro anni, cinque in sei se consideriamo anche l’esperienza in famiglia omonima Tweedy, una colonna sonora per un docuentario HBO, un disco collaborativo con la leggenda del soul Mavis Staples, un’autobiografia e un recentissimo manuale bigino su come scrivere una canzone, quanto mai autorevole visto che ne avrà scritte un centinaio solo in questo lasso di tempo.
Nel mezzo, ovviamente, anche tour mondiali con i Wilco a supporto di tre piccole gemme della loro produzione recente. Jeff Tweedy, che sicuramente è tra i più grandi cantautori della sua generazione, in ogni caso non è Re Mida. Evidente che non tutto quanto generato nell’ultimo lustro pareggi le opere che giganteggiano come una catena montuosa frastagliata a cavallo tra i millenni. Tuttavia, se avete amato anche un centimetro della sua arte, non potrete che ritenervi soddisfatti nel ritrovare con così tranquillizzante frequenza queste melodie, queste chitarre acustiche vivide, le ritmiche timide quando non goffe, il timbro di voce sussurrato: tutto quello che ormai riconosciamo come il marchio di fabbrica Tweedy.
“Love Is The King”, di nuovo pubblicato per dBpm Records e ancora con la (bellissima) copertina in bianco e nero, nonostante il titolo lennoniano e aristocratico, resta un disco scarno come i precedenti gemellini “WARM” e “WARMER”, e prima ancora il compendio acustico “Together At Last”, per non parlare appunto di “Tweedy” (2014) o di “Ode to Joy” con i Wilco. Degli Wilco, è bene chiarirlo subito, non c’è nessun altro formidabile membro qui, rimpiazzati tutti dai due figli di Jeff, Sammy e Spencer, almeno non in forma fisica, perché lo spirito di Nels, John, Glenn, Pat e Mikael resta comunque presente.
A partire dalla title track posta in apertura, con quell’andamento ritmico solenne, esasperato nel finale da un assolo naif da “non so cosa sto facendo” ma che in verità è tutt’altro, che ci sembra di sentire proprio Nels Cline e Glenn Kotche supportare il brano e l’amico. Tweedy, pioniere dell’alt-country, anche qui si misura con i padri putativi attraverso brani dal sapore roots come Opaline, in cui la slide guitar viene portata a nuovi livelli di sperimentazione, come faceva Jerry Garcia 50 anni prima, A Robin or a Wren, mezzo waltzer con reminiscenze di Gram Parsons nel cui ritornello farsi cullare, e Natural Disaster, con la sua falsa partenza che poi diventa un piccolo treno merci su rotaie che ci porta, anche come gravità del timbro vocale, dritti all’Uomo in Nero del country.
I singoli Gwendolyn e Guess Again tornano decisi su un pop-rock scandito da linea elettrica, linea acustica, basso lucido e batteria accarezzata che rimanda per forza di cose alla lezioncina di “Rubber Soul” dei Beatles. Save It For Me, fischiettata e sussurrata nell’orecchio, viene da epoche ancora più remote, una commedia anni ’40 in bianco e nero la cui canzone cardine ci cantava la nostra nonna come una ninna nanna.
Poi, quando tutto sembra diventare un simpatico esercizio di stile, ecco le ballad: e qui Jeff picchia veramente duro, da sempre. Poste come in un crescendo strategico, Bad Day Lately, Even I Can See, Toubled e Half-Asleep (chiusura perfetta con quel minuto finale da brividi veri) sono letteralmente una più bella dell’altra. Sono medicinale, cura per un momento duro che non fa distinzioni, dal più povero al più ricco, come quella cosa chiamata amore che qui è sovrano, monarca, re.
Nate come riflessioni sul dolore, sulla paura, sulla perdita e sulla mancanza in epoca pandemica, le canzoni di “Love Is The King” ci consegnano il solito Tweedy recente, anche questa volta più orientato verso la tradizione che verso l’innovazione, ma più che mai riflessivo e aperto nel dichiararsi nudo, nel chiedere aiuto, nell’incoraggiare ad accettarlo, nell’invito a consolarsi a vicenda. Dopo decenni passati a cantare di inferno personale o comunque condiviso da pochi, questa volta, in cui ci siamo dentro un po’ tutti, Tweedy ci spiega se non come uscirne, almeno come affrontarlo. La ricetta, stringi stringi, sta nel titolo dell’Opera.
Andrea Fabbri

I miei tre locali preferiti per ascoltare musica: Circolo Magnolia (Milano), Biko (Milano), Santeria Toscana (Milano)
Il primo disco che ho comprato: Coldplay – X&Y
Il primo disco che avrei voluto comprare: Weezer – Blue Album