Bulimia rock’n’roll? Nutrirsi con vigore di ogni genere musicale emerso negli Stati Uniti e risputare tutto fuori, in forma mirabilmente omogenea, come un vomito profumato, è ciò che ha fatto Ryan Adams per darci il benvenuto in questo 2024. Era il giorno di capodanno, infatti, quando il rocker di Jacksonville ha pubblicato in contemporanea la bellezza di cinque nuovi album. Un suicidio commerciale (chi al giorno d’oggi ha il tempo, la voglia e la pazienza di ascoltarsi ben settantasette canzoni filate di un unico autore?), ma anche l’ennesima conferma di uno spirito indomito, non nuovo in carriera ad eccessi del genere, sia in ambito musicale sia nella vita privata.

Sulle vicissitudini personali dell’artista preferiamo non soffermarci in questa sede, ma del suo fisiologico bisogno di creare musica è ancora giusto parlare. Ryan Adams, volenti o nolenti, è uno dei più grandi autori della sua generazione. Uno che in ventiquattro anni di carriera ha pubblicato trentadue album, fra capolavori, fatiche non proprio riuscite, omaggi ad altri musicisti, rock classico, punk, country e chi più ne ha più ne metta.

E queste ennesime novità? Meritano sicuramente un ascolto, anzi più di uno. Ma andiamo con calma elencando le nuove cinque uscite discografiche, rigorosamente in ordine alfabetico.

 

“1985”

Figlioccio di “1984”, partorito in ritardo di un decennio esatto, è una bomba. Ventinove pezzi per poco più di mezz’ora di musica. Una dichiarazione d’amore per i Replacements (come non sentirci l’esordio di Westerberg e soci “Sorry Ma, Forgot to Take Out the Trash” qui dentro?), una sfida ai Circle Jerks di “Group Sex” nella durata dei brani, sporcizia punk alla GG Allin, un bozzetto acustico di trentuno secondi (Down the Drain) con l’intensità di un Elliott Smith, le due canzoni conclusive, le uniche a superare i due minuti, che mostrano la “nuova” strada melodica (che nuova non è, ma già mostrata più e più volte). Punk nella musica e nell’animo.

 

“Heatwave”

Un ottimo album. Classic rock istintivo da far invidia a colleghi ben più blasonati (dite Jack White?), una scrittura cristallina benedetta dal santino di Springsteen e dei primissimi Wilco, distorsioni come piovesse; inoltre una copertina con tanto di selfie in un cesso di un localaccio che più romantico non si potrebbe. Nulla di nuovo, ma più di altre volte il tutto suona bene, davvero bene.

 

“Prisoners”

Versione live del quasi omonimo “Prisoner”, l’album del 2017 post divorzio con Mandy Moore. Meno eighties del predecessore nato in studio, qui suona cristallino in una versione quasi unplugged dove oltre a voce e chitarra acustica si sentono in lontananza echi di synth e un piacevolissimo sax.

 

“Star Sign”

L’album country, senza il prefisso alt, del lotto. Il nume tutelare è Neil Young, ma filtrato dagli U2 americani di fine anni Ottanta. Una serie di canzoni melodicamente affascinanti e spesso dal tono epico. Se Be Wrong fosse inserita nella colonna sonora di un film basato su pentimento e rinascita, farebbe sfracelli.

 

“Sword & Stone”

Dodici piatti nati durante una cena in compagnia del mai troppo compianto Tom Petty, del quale qui Ryan Adams si autoprocalma degno erede. E ci si immagina già su una strada immersa nel nulla statunitense con una stazione radio FM sparata ad altissimo volume.

 

Conclusione

Il migliore album punk dell’anno, già dal primo gennaio, un bel live sebbene non imprescindibile e tre ottimi album che con i giusti tagli avrebbero potuto sfornare un nuovo “Gold”, cioè un capolavoro. Sarebbe stato forse più giusto? Per noi voraci di Ryan Adams forse è andata meglio così. Il suo fascino d’altronde risiede anche nella sua irresistibile iperattività artistica. Ryan Adams è oggi la perfetta rappresentazione del sogno americano, già morto. Che sia pronto a risorgere?

 

Andrea Manenti