Negli ultimi cinque o sei anni Stu Larsen ha saputo conquistare il nostro cuore a suon di ballate folk e scherzetti acustici da primo della classe. Le sue origini australiane sono una componente fondamentale della sua musica, ma allo stesso tempo tendono a perdersi in un’identità che è tutt’altro che sedentaria. Pur dovendo buona parte della sua fama iniziale alla lunga collaborazione con Passenger, Stu Larsen è poi riuscito a ritagliarsi infatti il ruolo di artista vagabondo, intraprendendo un viaggio che dura ormai da oltre dodici anni e che ha ispirato la sua intera produzione solista.
Al suo disco d’esordio (“Vagabond”, 2014) hanno fatto seguito “Resolute” (2017) e “Marigold”, uscito il 3 aprile 2020 per Nettwerk Music Grup / Bertus, tre album di livello assoluto che vi consigliamo di recuperare. Abbiamo intervistato Stu Larsen per farvelo conoscere ancora meglio e indagare sulla sua vita per niente monotona.
A cura di Paolo
Ciao Stu, innanzitutto come stai?
Ciao amici di indie-zone! Sto bene, sto lentamente ritrovando il passo in questa “new-normal era”.
Ti faccio una domanda che può apparire scontata, soprattutto in questo periodo, ma nel tuo caso non lo è mai: dove ti trovi in questo momento? Cosa stai facendo?
Sono stato piuttosto fortunato: quando è esplosa la pandemia mi sono spostato nella campagna francese. Qui, per la prima volta in più di dieci anni, ho trovato una mia routine. All’inizio è stato strano dormire nello stesso letto per più di qualche notte, ma adesso mi sta piacendo molto. Trascorro le mie giornate intorno e dentro casa, a volte dando una mano in giardino, facendo passeggiate nel bosco qui vicino e suonando quando ho lo stimolo giusto.
Sei un folksinger vagabondo, un uomo che ha fatto del viaggio una ragione di vita. A differenza dei tuoi due dischi precedenti, però, il viaggio che descrivi nel tuo nuovo album “Marigold” mi sembra più spirituale ed emotivo che geografico. Mi sbaglio?
Non ti sbagli affatto! “Marigold” è un disco fortemente emozionale, è la cronaca di una storia d’amore, dalla sua nascita fino alla sua fine, vissuta con una profondità di cui non avevo mai avuto esperienza prima.
Uno dei temi centrali del disco è appunto la sofferenza che hai provato per la fine di questa storia. Si dice che è proprio nei momenti tristi che nascono le ispirazioni migliori. Sei d’accordo?
Sì, sono d’accordo al cento per cento con questa affermazione. Quando il tuo cuore è spezzato, vuoi stare da solo. E quando sei davvero solo, sei completamente vulnerabile. Penso che siano questi i momenti in cui possono nascere molte canzoni depresse ma magiche.
I testi più sofferti di “Marigold” sono stati scritti di getto o sono il risultato di una riflessione più lunga?
Essenzialmente l’intero album verte su una relazione dolorosa, fatta di continui “tira e molla”. Quindi qualche canzone è uscita rapidamente durante i momenti più intensi, mentre qualche altra è arrivata dopo settimane di riflessione in cui mi chiedevo se valesse ancora la pena lottare per mantenere una qualche forma di unione o se avessi dovuto semplicemente lasciar perdere.
La tua cifra stilistica è rimasta la stessa, basata su un folk puro e senza compromessi. Ti sei mai lasciato attrarre da altri generi?
Spesso mi ritrovo a fantasticare di fare qualcosa di leggermente diverso, ma allo stesso tempo sono felice di continuare a scrivere semplici canzoni folk e portarle in giro per il mondo con la mia chitarra acustica. Amo questo stile di vita dove tutto ciò che mi serve è la mia chitarra e che mi rende libero di andare in qualunque luogo in cui le persone vogliono sentirmi suonare.
Per “Marigold” hai messo per la prima volta le mani sul mixer. Cosa hai aggiunto al disco in questa fase delle registrazioni?
Non credo di aver aggiunto molto al suono del disco, ma questa volta sono stato certamente più coinvolto nel processo di realizzazione insieme a Tim Hart (produttore) e Simon Berckelman (ingegnere del suono). E’ stato unico: penso che la presenza di tre differenti punti di vista in studio abbia davvero aiutato a dare all’album la forma che ha oggi.
Sulla copertina di “Marigold” sei ritratto mentre scatti una fotografia e da un mese a questa parte stai pubblicando sulla tua pagina instagram delle bellissime fotografie relative ai tuoi viaggi dell’anno scorso. Che rapporto hai con la fotografia? Possiamo considerarti anche un fotografo, oltre che un musicista?
Ho scattato la fotografia della copertina di “Marigold” nell’appartamento di alcuni amici di Amsterdam, dove ho scritto anche qualche canzone finita nel disco. Penso che quell’autoritratto si possa associare bene a un insieme di canzoni così introspettive. Per me la fotografia è un hobby, la amo molto, ma non credo che i fotografi professionisti possano considerarmi alla loro altezza. Secondo me la fotografia non ha confini e chiunque può catturare un momento speciale usando qualsiasi tipo di macchina. La bellezza è ovunque intorno a noi, in qualunque istante. A volte dovremmo solamente aprire un po’ di più gli occhi.
Nel periodo di quarantena molti artisti hanno partecipato a dirette streaming per ovviare all’assenza dei concerti. Cosa ne pensi? Lo hai fatto anche tu?
Ho partecipato ad alcune delle prime dirette streaming. Era la metà di marzo, siamo stati prima a Monaco e poi a Londra, quando abbiamo saputo che i nostri show erano stati annullati a causa della diffusione del virus. Così abbiamo deciso di “sostituire” i concerti veri e propri con delle dirette streaming (sono ancora visibili sulla mia pagina Facebook) per offrire al pubblico un po’ di musica live, soltanto in un diverso formato. Poi il 3 aprile ho organizzato una presentazione speciale del disco in streaming (la potete rivedere qui sotto, ndr.), suonando le 11 tracce di “Marigold”. E’ stato molto emozionante. A volte ho anche suonato live su Instagram, e sono sicuro che ci saranno altre occasioni.
Quando si potrà ripartire, quale sarà la prossima tappa del tuo viaggio?
Onestamente non saprei. Stanno per scadere i miei 90 giorni di permesso nell’area Shengen e se non troverò un modo per fermarmi di più sarò costretto a pianificare di andare altrove. Per ora spero di riuscire a rimanere in Francia, di girare per l’Europa non appena questa situazione si sarà risolta e ricominciare a fare qualche piccolo concerto.
Tre dischi che non possono mancare nella tua valigia.
Bella domanda… Impossibile dare una risposta definitiva, ma questi sono i tre dischi su cui ritorno costantemente:
Damien Rice – O
Rosie Carney – Bare
Leif Vollebekk – Twin Solitude
Toglimi un’ultima curiosità: la chitarra di cui parlavi in Chicago Song (da “Resolute”, 2017) è ancora la tua partner in crime?
Dopo le registrazioni di “Marigold” ho dovuto lasciare Chicago (il nome della chitarra, ndr.) a Tim Hart. Quindi per il momento è lui a prendersi cura di lei al posto mio.
La foto di Stu Larsen in copertina è di Nettwerk
Mi racconto in una frase:
Gran rallentatore di eventi, musicalmente onnivoro, ma con un debole per l’orchestra del maestro Mario Canello.
I miei tre locali preferiti per ascoltare musica:
Cox 18 (Milano), Hana-Bi (Marina di Ravenna), Bloom (Mezzago, MB)
Il primo disco che ho comprato:
Guns’n’Roses – Lies
Il primo disco che avrei voluto comprare:
Sonic Youth – Daydream Nation
Una cosa di me che penso sia inutile che voi sappiate ma ve la racconto lo stesso:
Ho scritto la mia prima recensione nel 1994 con una macchina da scrivere. Il disco era “Monster” dei Rem. Non l’ha mai letta nessuno.