Non è passato neanche un anno da “The Boy Who Cried Wolf”, che le urgenze espressive di Passenger, al secolo Mike Rosenberg, lo hanno spinto a un nuovo disco. “Runaway”, anticipato dai singoli Hell or High Water e Hearth to Love, fa raggiungere al songwriter inglese la doppia cifra discografica: 10 album in undici anni di attività, roba da fare invidia a molti.
Un disco registrato tra Inghilterra e Australia e prodotto dallo storico collaboratore Chris Vallejo, che è una conferma, non certamente una sorpresa. La chitarra, la voce carezzevole e dolce, un sostegno musicale morbido e piacevole: questo è il marchio Passenger, e anche questa volta emerge fiero e distinto.
Passenger costruisce un (ennesimo) album che si inserisce alla perfezione nell’universo del cantautorato indie-pop, indie-folk, ma resta chiaramente riconoscibile come suo. “Runaway” nasce da un viaggio in America, da dove viene il padre. Ed è proprio l’America più tradizionale che ci risuona attraverso: mandolini e banjo pizzicati da una sedia a dondolo, lap steel che sanno di polvere, sole e birre al tramonto. Aggiungi basso, batteria e tastiere, e l’impasto Passenger è pronto.
Con Let Her Go che continua a risuonarci nelle orecchie, rientriamo in quell’universo che ancora tanto si lega alla strada, al busking delle origini, che Mike non vuole e non ha dimenticato. «Anni fa, c’ero solo io e una valigia piena di CD, davanti a 50 persone. Ora c’è un palco, un fonico che mi dà consigli, suoniamo davanti anche a 3.000 persone. Ma il busking è qualcosa che noi abbiamo sempre fatto, una parte irrinunciabile di ciò che Passenger è».
Dieci tracce che declinano l’anima di chi le canta, con quella sua peculiare capacità di essere sia orecchiabile che intimista, di imbastire hit profonde e al tempo stesso catchy. Estroverso e personale.
Da una parte abbiamo la mega radiofonica Heart To Love, portatrice sana di tutti gli ingredienti del successo: la ricerca dell’amore vero, un giro di ritornello accattivante, melodie semplici e immediate, testi toccanti di deandreana memoria: I’ve been searching for diamonds in a pile of coal. Così come Let’s Go, un’allegra camminata sulle corde di una chitarra trascinata e poi lasciata libera di andare sola, o anche He Leaves You Cold.
Dall’altra parte c’è Ghost Town, dove si ricompone la chiave più intima e acustica e la voce sussurrata di Mike torna assoluta protagonista, costellata di lievi tastiere e pizzicati, come anche To Be Free.
“Runaway”, in fin dei conti, è tutto meno che il suo titolo. Si incarna molto meglio nell’ultima adrenalinica traccia, Survivors: inno al prendere la vita come viene, al non piegarsi o spaventarsi, al non farsi prendere dall’ansia di correre o dalla paura di amare.
“Runaway” è la capacità di Passenger di non scappare da se stesso, di continuare a scrivere e suonare come meglio sa fare. Di ergersi a menestrello dell’anima, senza pretendere di diventare altro, di snaturarsi. Why Can’t I change after all these years? / Whatever song it sings I’m still whistling the same old tune, canta in Why Can’t I change.
Ti svelo un segreto, Mike: a noi piaci proprio per quello, per quel ritornello familiare, quella voce pacata e accogliente, quel sound che resta facilmente incastrato nella memoria. Quindi, continua a soppesare e intessere parole e suoni per noi: ancora non ne siamo stanchi.
Giulia Zanichelli
Mi racconto in una frase
Famelica divoratrice di musica e patatine (forse più di patatine), diversamente social e affetta dalla sindrome di “ansia da perdita” (di treno, chiavi di casa, memoria
e affini).
I miei 3 locali preferiti per ascoltare musica
Auditorium Parco della Musica (Roma), Locomotiv Club (Bologna), Circolo Ohibò (Milano).
Il primo disco che ho comprato
“Squérez?” dei Lunapop, a 10 anni. O forse era una cassetta.
Comunque, li ho entrambi.
Il primo disco che avrei voluto comprare
“Rubber Soul” dei Beatles.
Una cosa di me che penso sia inutile che voi sappiate ma ve la racconto lo stesso
Porto avanti con determinazione la lotta per la sopravvivenza della varietà linguistica legata alla pasta fresca
emiliana: NON si chiama tutto “ravioli”, fyi.