Mr. D, all’anagrafe Daniele Fioretti, suona da sempre con la band di famiglia The Gentlemens, posizionato dietro i tamburi, un progetto che nasce sulle orme del punk blues. Negli anni esplora dimensioni diverse, sempre a cavallo della matrice blues. In sala prove inizia a muoversi tra le chitarre e la batteria, sposta un rullante a terra, modifica un pedale e compra il supporto per armonica: nasce così MR. Deadly One Bad Man, il progetto solista che lo fece girare per tutta Europa all’insegna del rock’n’roll a volumi devastanti.

Il 29 aprile 2022 è uscito il suo debut album dal titolo “Kid’s Dream”, pubblicato per la Bloody Sound Fucktory e prodotto da Loop Collective. “Kid’s Dream” è una raccolta intima di storie che nascono dai viaggi di Daniele, dai confronti con le centinaia di persone incontrate lungo la sua strada, dalle molteplici e preziose esperienze vissute in prima persona e dalle sue radici.

In questa intervista ci ha raccontato della nascita del disco, del suo contenuto e della sua personalissima idea di musica. Buona lettura.

 

 

Partiamo dai suoni: si vede che c’è stata grande cura in fase di registrazione, sembra quasi fatto in analogico, grande importanza alle chitarre, ma il resto supporta perfettamente l’arrangiamento e la tua voce completa il tutto. Ci racconti com’è stato il lavoro di registrazione e produzione?

In realtà, escludendo il nastro, gran parte della registrazione è analogica usando banco compressori ed altre macchine analogiche, poi riversato in scheda audio. Le chitarre sono fondamentali perché quando iniziai a comporre il disco l’unica certezza era quella di canzoni costruite chitarra e voce e che stessero in piedi così. Questi i patti tra me e Mattia Coletti, produttore, fonico (amico fraterno) del disco.

Per il tuo lavoro di tour manager sei spesso in giro per tutta Europa. Quanto hai “rubato” dalla scena europea a livello di suoni? E quanto invece ha influenzato le tematiche del disco?

A livello sonoro non ho mai pensato di aver rubato, ma potrebbe essere il contrario. Dallo shoegaze nei record shop, senti vinili mai ascoltati prima, ai festival, è difficile sottrarsi dal “rubare”, ma sempre e solo con stile e cose buone. Sicuramente fare tanta strada, con tutti gli incontri, gli scontri, le bestemmie con google maps, i sapori e i profumi, ha influenzato di più il mio essere. In fondo più che un musicista mi ritengo un cantastorie.

Le tue radici sono più rock’n’roll, in questo disco invece sei più blues, meno spinto nelle ritmiche e più scarno negli arrangiamenti, ci racconti perché questa scelta?

Non è stata una scelta fatta sulla carta, non sono il tipo che può vivere la musica, e la parte creativa specialmente, a tavolino. Ero un one man band potentissimo, creavo un muro di suono, spingevo forte sul drum kit e altrettanto facevo pompare le valvole degli ampli, mi piaceva molto e ho amato saltare sul palco in quel modo, poi la strada corre via e puoi “perdere” dei pezzi o lasciarli andare.

L’essenza del viaggio per me è quella di lasciarmi contaminare e di non fare solo un viaggio fatto di km, ma anche un viaggio interiore, portare a spasso nel mio van le mie emozioni, le mie fragilità e la mia rabbia. Proprio tutto questo ha fatto sì che in maniera naturale, né cercata né voluta, sia arrivata questa svolta. L’ho accolta, mi piace e mi diverto.

Kid’s Dream” sembra un disco molto personale, intimo, dove ti sei completamente lasciato andare al racconto di cose anche dolorose. Cos’ha significato per te scrivere quelle canzoni?

Conosco un modo per esprimermi: la musica. Scrivere di passaggi dolorosi non è semplice e talvolta faccio difficoltà a cantarne alcuni, ma è il miglior modo per metabolizzare l’evento. Poi non parlo solo di cose tristi, anzi, ma anche del me incazzato che sceglie il rock’n’roll come arma per combattere la società delle mercificazioni. Sono da sempre, e lo sarò per sempre, malinconico, ma quando mi incazzo so essere un buon combattente.

Quale canzone ha dato il via a tutto il disco? Immagino sia stato scritto durante la pandemia, quanto la situazione che abbiamo vissuto ha influenzato la tua musica?

Fui rimandato a casa da un mio tour tedesco per la pandemia, presi al volo la mia prima scheda audio e iniziai a giocarci. Lì nacque la composizione del disco, sempre in contatto con Mattia che ha seguito passo passo l’evoluzione. Quindi a dirla tutta, se non considero la parte economica, non ho vissuto male quei mesi, perché stavo sempre con le cuffie in testa a comporre, sperimentando con strumenti nuovi per me, come la chitarra acustica e le tastiere. La prima canzone che scrissi di questo album fu You Can’t Take My Soul, che è un po la prefazione del disco.

Come racconteresti il live di Mr. D?

Sto lavorando perché questo disco giri il più possibile, che “Kid’s Dream” sia un bel nuovo viaggio, ma un viaggio è fatto di tanti aspetti, per ora alzo le vele e mi faccio trovare pronto per quando il vento arriverà. Il live di Mr. D è intimo a tratti, ma senza perdere la mia essenza rock’n’roll. Non rinnego le mie origini, anzi ne vado orgoglioso; conscio delle mie radici, guardo al futuro. Saltare sul palco mi fa sempre sentire bene, sarò sempre e per sempre un rocker e il palco lo amo.

Ultima domanda, ci consigli gli artisti italiani che cantano in inglese e che secondo te meritano di essere ascoltati oggi?

Non Amo fare questo genere di liste, per tanti motivi, però mi chiedete un consiglio e io vi consiglio loro: Diego Dead Man Potron, Blues Against Youth, Belly Hole Freak, Gipsy Rufina, Elli De Mon, Black Snake Moan, Comaneci, Movie Star Junkies. Sono tutti solisti tranne i Comaneci e i Movie Star Junkies, che per me sono due band della madonna. Il comune denominatore tra tutti loro? Niente fighettismi, zero poser, solo strada, sudore, sincerità e tanta onestà.

La copertina di “Kid’s Dream”