Stu Larsen è un cantautore nato in Australia, ma cittadino del mondo. Lo riconosci subito, anche a distanza di decine di metri: porta i capelli lunghi, di un biondo rossiccio, con un cappello schiacciato in testa quasi sempre a tesa larga. Così facendo, da un lato e dall’altro, gli spuntano lunghe ciocche arruffate, simili alle orecchie di un cocker.

È un tizio buffo, Stu Larsen. Magrolino, con gli occhi a fessura e un sorriso contagioso divaricato sotto la barba incolta. La sua musica è indissolubilmente legata a questa sua immagine naïf e al ruolo che lui stesso si è ritagliato sul pianeta. Sì perché, come dicevamo, il ragazzo ragiona su larga scala. Abita ovunque e da nessuna parte. Chissà dove sta trascorrendo la quarantena, per dire. Per lui che è l’incarnazione umana del viaggio, deve essere una vera tortura.

Non a caso il suo disco d’esordio, uscito nel 2014, si intitolava “Vagabond”. Raccontava la sua vita da eterno migrante. Il successivo, “Resolute” (2017), proseguiva quel racconto in modo più determinato (risoluto, appunto), con una serie di nuovi traguardi, geografici e umani, messi in saccoccia. “Vagabond” e “Resolute” erano due album emozionanti, che ho amato moltissimo per l’intensità e la passione con cui sono stati scritti. A chi non conosce Stu Larsen, li consiglio vivamente.

Qui invece parliamo di “Marigold”, la terza fatica del Nostro, pubblicata il 3 aprile 2020 per Nettwerk Music Group. Manco a dirlo, da buon giramondo, il folksinger australiano ha aperto di nuovo la valigia per spacchettare le esperienze accumulate lungo la strada. A differenza dei precedenti, però, questo disco si snoda su un percorso più emotivo che “fisico”, esplorando l’evoluzione di una storia d’amore iniziata proprio durante questi anni di viaggio e fallita in breve tempo.

Scopriamo così che Stu Larsen, in realtà, non è il classico vagabondo solitario. O meglio, non è quel tipo di viaggiatore che ama farsi i fatti suoi. Al contrario, è un inguaribile romantico in cerca di compagnia. Una di quelle persone disposte a mettere da parte qualsiasi cosa pur di vedere realizzato il proprio sogno d’amore. E se questo significa fermarsi e stabilirsi insieme in una casa di campagna con un piccolo giardino, le api sui fiori, due gatti e una pecora (ascoltate Whisky & Blankets, dice proprio così), allora ben venga.

“Marigold” parte forte con la bellissima We Got Struck by Lightning, danzereccia e luminosa, ma dai toni melodrammatici. Prosegue con Hurricane, un brano che non ti aspetteresti mai da Stu Larsen, cassa dritta e un tiro niente male, sulla falsariga dei Dire Straits. Poi si torna sulle coordinate canoniche del new folk, con la già citata Whisky & Blankets e Wires Crossed, una ballatona con tanto di coro finale che sa un po’ di Coldplay. Il resto del disco si assesta bene o male sul binomio chitarra e voce, eccezion fatta per un altro bel pezzo, Wide Awake, arricchito da una maestosa sezione d’archi.

Perdita, abbandono e un’instancabile malinconia diventano temi sempre più centrali con lo scorrere della tracklist. L’autore sembra esserne pienamente consapevole (“Here’s another sad song about the time when you broke my heart”, inizia a cantare in Je Te Promets Demain), ma se ne sbatte e tira dritto sulla strada della confessione pura, senza imbarazzo né censure.

I testi si trasformano in messaggi diretti alla ex, spesso dolcissimi, altre volte venati di rancore, in una sorta di lungo monologo animato da un tormento fisso: “Love really is a mystery”. In questo senso “Marigold” è certamente il lavoro più intimo e personale di Stu Larsen. Un diario in cui il viaggio non è più il nodo centrale del discorso, ma l’occasione e l’ispirazione per tornare a riflettere su una relazione finita a pezzi.

E a proposito di pezzi, in un brano l’artista elenca addirittura i “trilioni” (sì, trilioni) di piccoli frammenti in cui il suo cuore si è sgretolato dopo la separazione. Un po’ eccessivo, forse. Ma a un animo ferito si perdona tutto, anche qualche nota di troppo imbevuta nel miele di un amore che nel frattempo è diventato, ahimè, molto amaro.

Paolo