Con il loro secondo album “Is the Is Are” del 2016, i DIIV erano a un punto di non ritorno. Avrebbero potuto ottenere un posto sui più grandi palcoscenici, ma quel caos interiore che tanto aveva reso la band così intima ed elettrizzante aveva preso il sopravvento, e il fondatore Zachary Cole Smith riconobbe che quelle storie di dipendenza cupe e speranzose narrate nel disco erano basate su una bugia.

“Getting sober and staying sober is fucking hard”, disse Smith in un’intervista nel 2017. Così, con la sua band appesa a un filo, il frontman si trasferì a Los Angeles e cominciò il suo periodo di riabilitazione trascorrendo gran parte di quell’anno in rehab. Questa dura esperienza di vita ha sicuramente segnato il suo songwriting per il nuovo album, “Deceiver”, che presenta anche altre novità: per prima cosa un altro cambio di formazione (fuori il bassista Devin Ruben Perez, dentro Colin Caulfield), quindi il contributo di tutto il gruppo alla fase di scrittura delle canzoni.

Il disco sembra un rifacimento – un’espiazione – del precedente, vuole essere la sua ombra più scura. Le canzoni parlano della difficoltà di ripulirsi e dei fantasmi che ci perseguitano, con toni più cupi e un sound più lento e duro del precedente, più in linea con la Seattle degli anni ‘90. Lo si intuisce già dall’opener Horsehead, con ruvidi feedback, così come in For the Guilty.

Colpisce lo slowcore straziante di Lorelei e il riff di Taker, col il loro incedere, mentre le chitarre impetuose in Like Before You Were Born diventano graffianti e sensuali in Skin Game. The Spark e Blankenship si rifanno maggiormente agli esordi e fanno scuotere la polvere di dosso prima di giungere all’epico finale affidato ad Acheron, dall’atmosfera solenne e riflessiva.

Con “Deceiver” i DIIV lasciano i sussulti incendiari dei lavori precedenti per qualcosa di più monolitico e cupo, ma anche più maturo, curato e soprattutto personale.

Stefano Sordoni