Come novelli Siddharta, i Ride, giunti nel mezzo del cammin di loro vita (almeno glielo auguriamo, anche se la storia alle loro spalle è già più che imponente), decidono di voltare le spalle alla purezza vicina al nirvana del loro shoegaze in favore di un tuffo fra vizi rock, nuove influenze e produzione massiccia (in verità quest’ultima già presente nel precedente “Weather Diaries”).

Un ritorno al samsara umano, con solo sprazzi dell’antica spiritualità raggiunta tramite la stratificazione sonora delle chitarre. Il risultato è un disco molto bello, probabilmente capace di acchiappare nuovi fan, ma forse portatore del rischio di perderne alcuni fra gli storici.

L’introduzione “egocentrica” della strumentale R.I.D.E. è già una dichiarazione d’intenti attraverso la quale la band di Oxford, forte dell’acclamato tour della reunion, mette in mostra i muscoli tramite un disco-rock alla Kasabian degli esordi. Future Love, il singolo di lancio, è una perfetta hit british pop, mentre Repetition strizza l’occhio addirittura alla new wave newyorchese dei Talking Heads.

Kill Switch si avvicina quasi a sonorità industrial, ma ci pensa subito l’onirica Clouds of Saint Marie a ricordare la pregevole scrittura melodica della coppia formata ormai trentun anni fa sui banchi universitari da Andy Bell e Mark Gardener. Eternal Recurrence è nostalgica nel suo rincorrere sonorità che la band contribuì a creare ad inizio anni Novanta, al contrario Fifteen Minutes guarda a ciò che succedeva esattamente in quegli stessi anni dall’altra parte dell’oceano, al grunge, ai suoi passaggi pulito – distorto e alle sue armonie vocali.

Jump Jet omaggia gli U2 pre fine millennio, soprattutto la batteria di Larry Mullen Jr. e la chitarra effettata di The Edge, Dial Up è una dolcissima ballad semi acustica impreziosita da un tremolo solista da pelle d’oca, End Game un tributo agli anni Ottanta vicino alle strade percorse dagli ultimi Slowdive, mentre Shadows Behind the Sun semplicemente un’ottima pop song.

La tracklist si conclude con la lunghissima In This Room, suite in cui i nostri si riappropriano ancora una volta con grandissima classe di ciò che appartiene loro, quell’indimenticabile mix di rumore e melodia così tipicamente inglese.

Andrea Manenti