“Io quando avevo vent’anni ero uno stronzo”. Duole citare uno dei versi più celebri di Appino per iniziare una recensione; verso che assume per il sottoscritto, serenamente ascrivibile alla categoria Boomer, anche le sembianze di un potenziale epigramma. I Tenue, invece, sono molto più intraprendenti e quando avevano vent’anni, cioè adesso, hanno pubblicato per V4V Records “Filtro”, album di debutto per il quartetto campano composto da Antimo Cardilicchio (voce e chitarra), Angelo Giaccio (chitarra), Giovanni Castaldo (basso) ed Eloise Canciello (batteria e voce).

“Filtro” è un album empatico che vuole raccontare ansie giovanili, spleen post-adolescenziali che prevalgono sulla “teenage angst”; non proprio un concept album, ma c’è una certa omogeneità nel rappresentare le insicurezze, i sogni, le contraddizioni della generazione dei ventenni di oggi (dei millennial? generazione Y? Z? a che lettera siamo arrivati?). Raggiungono il loro obiettivo grazie alle liriche e a un efficace impianto sonoro che spazia dal dreampop all’emo-gaze, mirabile crasi dei termini shoegaze (distorsione, delay, tremolo, reverberi a pioggia, vedi alla voce My Bloody Valentine) e emo, vale a dire una delle categorie musicali più labili, ubique e permeabili utilizzate da chi a vario titolo scrive di musica (dai Mineral ai My Chemical Romance, passando dagli American Football ai Van Pelt, ma per un periodo torbido perfino i fottuti Tokyo Hotel).

Undici brani immersi in atmosfere scure e rabbiose, esplosioni di rumore che si alternano a suggestioni liquide e morbide. Come da titolo, queste sensazioni filtrano, deformano, distorcono, de-realizzano una realtà a tratti depressa e percepita come da una “terza persona”, in una sorta di esperienza extracorporea. Tormenti e malesseri, ansie e depressioni, stati di alienazione, calma apparente che nasconde solitudine e angoscia. Questo è il mondo descritto e suonato dai Tenue in “Filtro”.

Questa recensione arriva un po’ in ritardo rispetto all’uscita dell’album (diamo pure pigramente la colpa alla pandemia) e questo significa che naturalmente l’esordio su LP dei Tenue è stato già ampiamente commentato. Hanno detto di loro: sono solo dei “Negramaro col distorsore a palla”, il che sottolinea malignamente una certa tendenza della voce (che in effetti potrebbe a tratti ricordare fastidiosamente Sangiorgi), che rispetto ai canoni dello shoegaze è posta in primo piano e non sommersa dai feedback delle chitarre. Forse anche “troppo” in primo piano a seguire linee melodiche che rimandano in qualche caso più a un pop radiofonico che a una non meglio rintracciabile “attitudine punk”.

Hanno detto di loro che rivendicano solo influenze musicali del passato (shoegaze significa anni ’90, emo pure, e al limite ci possiamo infilare dentro come riferimenti anche Verdena e Placebo, sempre roba di decenni fa) anche se parlano della confusione dei giovani del 2020. Ma mi pare che per quanto riguarda la musica delle band più guitar oriented nessuno al mondo abbia inventato la ruota negli ultimi 20, facciamo quasi 30 anni, e non vedo proprio perché farne una colpa ai poveri Tenue.

Non bisogna però scambiare la loro marcata sensibilità per mancanza di grinta o di personalità, a mio avviso. Questa andrebbe piuttosto presa per un tratto caratteristico della loro musica, suonata da una band giovane e che, come ampiamente argomentato nella parte iniziale, tende a concentrare la sua attenzione su temi non esattamente da carnevale di Rio o su una logora epica del Ruock, di cui nel 2020 non si sente peraltro la mancanza.

Si comincia con le atmosfere dilatate di Tenue, una sorta di introduzione al resto di “Filtro”, si prosegue con il turbo grazie ad Annegare: un attacco grintoso e un incedere sicuro, uno dei pezzi più convincenti dell’album. Si alternano spesso momenti di quiete apparente a esplosioni controllate di rumore. Il cantato riporta ai migliori Fast Animal and Slow Kids e la somiglianza con la band di Aimone Romizi trova conferme anche in Terza Persona: ancora deflagrazioni di chitarre e ulteriore ottima prova della sezione ritmica.

Il tutto si traduce in melodie malinconiche, ma sorrette da corposi strati di chitarre che approdano a territori quasi post-rock, in particolare con Derealizzazione, un intenso strumentale posto a chiusura dell’album che indica forse una possibile evoluzione del suono dei Tenue. Ciò che colpisce di più in una band così giovane è proprio la capacità di aver trovato in maniera molto chiara una propria cifra, tanto nei brani più energici (Annegare, Vento, Traccia), quanto in quelli più riflessivi (Quella Foto, Solco, Forse).

E se è vero che si inseriscono in un filone musicale già battuto da molte delle band citate, è anche vero che non è possibile confonderli, per via di un suono e di certe dinamiche quiet/loud molto specifiche che sono già riusciti a costruirsi come trademark. Per essere il debutto di quattro ventenni non è affatto trascurabile, se qualche incertezza si riscontra è ampiamente perdonabile; sarà sicuramente interessante seguire il percorso futuro dei Tenue.

Andrea Bentivoglio