Lo capivi dall’odore, quell’odore che solo certi posti hanno. E non era solo l’odore dolciastro e plasticoso del vinile e dei cartoni delle copertine. No. Era l’odore dell’autenticità, della conoscenza, della passione, dell’immortalità. Era l’odore di Bleecker Bob’s, e basta.
Era un odore che non morirà mai, men che meno ora che lui, Bob, ha spento la (sua) musica per sempre.
Mister Robert Plotnik ha lasciato questo mondo lo scorso 29 novembre a 75 anni. Chi era? Un amico. Un amico di tanti, un potenziale amico di tutti. Un amico di David Bowie, Bob Dylan, Frank Zappa, ma anche di una Madonna o di un Prince ben lontani dall’essere delle star o di sbarbati ragazzini destinati a suonare in quella band chiamata Clash. Amico dei famosi? Bob era famoso di suo, anzi era forse più famoso di loro.
Chi era “Bleecker Bob”
Robert Plotnik non era altro che un avvocato “pentito” che, bontà sua e nostra, aveva capito sufficientemente in fretta che la sua strada era quella di diffondere il verbo della musica in mezzo alle strade. Anzi, alla strada, a Bleeker Street nel bel mezzo di Greenwich Village a New Yorck City. Robert Plotnik fu il profeta delle sette note che fondò la mecca Bleecker Bob’s Record e la portò a diventare crocevia della storia della musica.
Già, perché dal civico 149 della strada coi mattoni rossi passarono tutti. Ma proprio tutti.
Ci passò una giovane cliente di nome Patti, Patti Smith che tra gli scaffali si imbattè in un tale di nome Lenny Kaye, lo invitò ad accompagnarla con la chitarra durante un reading di poesie e finì che la accompagnò per il resto della vita.
Ci passò spesso e volentieri Joey Ramone, che sfotteva Bob sostenendo che “in quel negozio i prezzi fanno ridere, ma è l’unico dove puoi davvero trovare tutto quello che cerchi”.
Ci passarono collezionisti così come un sacco di band emergenti, che Bob portava in palmo di mano e sponsorizzava molto più dei suoi (amici) mostri sacri.
Ci passò una folla di gente qualunque, che passava in negozio anche dopo essere uscita dai club e lì restava fino alle 3 del mattino e oltre, fino a quando “Bleecker Bob” aveva voglia di sopportarli ma soprattutto di infondere loro la sua smisurata conoscenza.
Non solo un negozio
Perché Bleecker Bob non era solo un negozio. Non lo era affatto. Non era neanche un posto che faceva tendenza. Era un posto dove il passato strizzava l’occhio al presente ma anche al futuro, dove l’avanguardia era sempre la benvenuta, dove tutto conviveva per influenzarsi nel senso più costruttivo del termine.
Bleecker Bob’s fu un pezzo consistente e determinate per la controcultura degli Anni 60 e 70, fu una pietra miliare di quel ristretto “Villaggio” all’interno della grande metropoli che fu capace di scuotere mode e modi.
Bleecker Bob era il posto dove trovavi un bootleg di fianco a un poster tra una collezione di orologi. Era il negozio dal pavimento scricchiolante di legno e lo stesso registratore di cassa mai cambiato dal primo giorno di apertura. Era un’eperienza. Una di quelle che ti segnano per sempre.
“I dischi dei quali io gli dirò che hanno bisogno”
Una favola nata nel 1967, finita persino nei credits del Saturday Night Live, resistita alla scomparsa delle musicassette, alla quasi eclissi dei cd, al successo rollercoaster dei vinili, alla crisi del mercato discografico con l’avvento di internet e del downloading.
Resistette persino alla chiusura del CBGB, il club della porta accanto dove vide i natali il punk. Resistette a tutto finché potè, persino all’ictus che colpì Bob nel 2001. Fino al 2013, quando dopo quasi 50 anni di onorata carriera la saracinesca si abbassò per sempre.
A una giornalista che lo intervistava poco prima che il negozio chiudesse e gli faceva notare che la gente non comprava più i dischi, Bob rispose: “Continueranno a farlo, continueranno a comprare i dischi dei quali io gli dirò che hanno bisogno”.
Ora a quel 149 c’è un ristorante giapponese, ma se passate di lì fermatevi lo stesso e ascoltate. Perché il suono della storia, quello non lo può spegnere mai nessuno.
Federica Artina

You know, I’m a dreamer.