Per non farci mancare niente, quest’anno abbiamo deciso di votare non soltanto i migliori album del 2018 (qui la nostra classifica dei dischi italiani e qui quella dei dischi internazionali), ma anche quelli che ci hanno maggiormente deluso. Ma attenzione: se un disco è deludente, non significa necessariamente che sia brutto. Significa che dalla band in questione, per il blasone e per le qualità che le abbiamo sempre riconosciuto in passato, ci saremmo aspettati molto di più. Dai voti di tutti i collaboratori di indie-zone.it sono emersi in particolare cinque titoli che più di altri hanno mancato l’appuntamento con la sufficienza. Ve li presentiamo qui sotto.
A cura di Paolo Ferrari
Franz Ferdinand – Always Ascending
I Franz Ferdinand sono una delle tante grandi band dei primi Duemila che quest’anno sono tornate sulle scene con una nuova pubblicazione. Nel caso del gruppo scozzese, qui orfano di una pedina importantissima (Nick McCarthy), si è trattato di un ritorno poco esaltante. Sia chiaro, il loro quinto album in studio, “Always Ascending”, non è tutto da buttare, ma di certo non soddisfa le aspettative. Mettiamola così: non è un disco all’altezza dei precedenti. Ecco, a dispetto del titolo, non vorrei che i Franz Ferdinand si siano avviati lungo la parabola discendente già imboccata da altri illustri colleghi.
Huck and Jim, con il suo ritornello alla Weezer, è uno dei brani che salviamo:
Death Cab For Cutie – Thank You For Today
Il discorso fatto per i Franz Ferdinand si può fare anche per i Death Cab for Cutie. Protagonisti assoluti, ancor più dei primi, della gloriosa scena indie-rock degli anni Zero, i cinque di Seattle hanno pubblicato nel 2018 il loro nono album. Tutti d’accordo sul fatto che i DCFC non si potranno mai più ripetere sui livelli di “The Photo Album” o “Transatlanticism”, ma è altrettanto vero che, proprio alla luce ancora abbagliante di quei due piccoli capolavori, questo “Thank You for Today” poteva e doveva dare di più. L’assenza di Chris Walla (come quella di Nick McCarthy per i Franz Ferdinand) si fa sentire ancora parecchio. La scrittura di Ben Gibbard resta lucida e quasi sempre ispirata, ma il disco si fa riascoltare a fatica.
Il singolo, Gold Rush, ci era comunque piaciuto:
Gorillaz – The Now Now
Da qualche anno a questa parte Damon Albarn è sicuramente uno degli artisti più prolifici in circolazione. Accantonata almeno per il momento l’esperienza con i Blur, il nostro ha sfornato dischi da solista, colonne sonore, collaborazioni sparse, due album con The Good, The Bad & The Queen (l’ultimo proprio nel 2018) e altri sei dischi sotto le spoglie cartoonesche dei Gorillaz. Per la legge dei grandi numeri, qualcosa doveva pur venirgli male. Duole ammetterlo, ma questo “The Now Now” è lo svivolone dell’anno, la nostra delusione del 2018. Un album decisamente più incentrato sullo stesso Albarn, ma privo di inventiva e dei guizzi geniali a cui ci eravamo ormai abituati. Peccato.
Il brano migliore, questo sì davvero bello, è quello che si allontana di più dal classico suono dei Gorillaz, Idaho:
Mumford & Sons – Delta
“Delta”, il quarto album dei londinesi Mumford & Sons, è la conferma definitiva, semmai ce ne fosse bisogno, del cedimento del gruppo al cospetto del successo facile. Le piacevoli melodie alt-folk degli esordi sono quasi totalmente scomparse per fare spazio a un nuovo sound che di folkloristico non ha più nulla. L’ennesima delusione, insomma, rispetto alla quale i commercialissimi Of Monsters and Men risultano addirittura più autentici.
Se è proprio necessario estrarre qualcosa di decente da questo disco, proviamoci con Darkness Visible:
Muse – Simulation Theory
I Muse di Matthew Bellamy non ne azzeccano una da almeno 15 anni. I bei tempi di “Showbiz” e soprattutto di “Origin of Symmetry” sono ormai lontanissimi, spazzati via per sempre da uno space-rock plasticoso, noiosamente aulico, ormai sfociato in un pop elettronico senza un briciolo di originalità. Il peso che diamo alla musica dei Muse è talmente scarso che il loro ultimo “Simulation Theory” non meriterebbe nemmeno di rientrare tra le delusioni del 2018. Qualcuno di noi, però, ha voluto crederci ancora in nome del loro più che dignitoso passato. Beh, manco a dirlo, è arrivato l’ennesimo schiaffo al buon gusto. Se ci aggiungiamo il fatto che il singolo Something Human mi ricorda a tratti il ritornello di Change Despair dei miei amati Lagwagon (sì, proprio loro, non sto scherzando), direi che ci sono tutti gli elementi per definire questo disco un’operazione pietosa, che si barcamena fra ammiccamenti e plagi più o meno spudorati. Ora basta.
In un disastro del genere, tanto vale isolare questo obbrobrio, Propaganda:
Mi racconto in una frase:
Gran rallentatore di eventi, musicalmente onnivoro, ma con un debole per l’orchestra del maestro Mario Canello.
I miei tre locali preferiti per ascoltare musica:
Cox 18 (Milano), Hana-Bi (Marina di Ravenna), Bloom (Mezzago, MB)
Il primo disco che ho comprato:
Guns’n’Roses – Lies
Il primo disco che avrei voluto comprare:
Sonic Youth – Daydream Nation
Una cosa di me che penso sia inutile che voi sappiate ma ve la racconto lo stesso:
Ho scritto la mia prima recensione nel 1994 con una macchina da scrivere. Il disco era “Monster” dei Rem. Non l’ha mai letta nessuno.