Quanto è difficile ascoltare il nuovo disco degli Arctic Monkeys? E quanto è più complicato scriverne? Si suda freddo, ci si gratta in modo forsennato, come in preda a un’orticaria. Perché con “Tranquility Base Hotel & Casino” tutto è cambiato, tutto è stravolto. La prima reazione, istantanea, è quella di un drugo sulla pista da bowling: «What the fuck are you talking about?». La brufolosa irruenza garage è andata a farsi fottere. Le chitarre sono ridotte all’osso. I ritornelli catchy degli esordi, le reminiscenze stoner di “Humbug”, la favolosa miscela pop-rock di “AM”. Tutto svanito, cancellato, strozzato in un tiro di sigaretta al bancone del bar.
Arctic Monkeys Vs. Resto del Mondo
Forte eh? E adesso come si fa? Ingaggiamo una battaglia all’ultimo confronto fino a stracciarci le vesti? Proviamoci. Chi altro ha avuto il coraggio di cambiare così tanto? Beach Boys, Beatles, Dylan, Bowie, Clash, Genesis. A ben pensarci anche i Casino Royale all’inizio facevano ska. Poi sono passati al trip-hop, ma questa è una storia tutta italiana. Nel caso degli Arctic Monkeys la terra di approdo è un suono dal sapore vintage, che mette sul banco ispirazioni che vanno dal soul al pop barocco, fino al crooning più spinto affidato alla voce riverberata di Alex Turner. Qualcosa, insomma, che non avrebbe sfigurato in un night club di New York negli anni ’50.
Una questione di qualità
Il fatto è che fare confronti è un esercizio fine a se stesso, e in qualche caso impietoso. Meglio concentrarsi sulla musica, sul disco, sulla qualità di questo lavoro. E ce ne fossero di dischi qualitativamente così elevati. Undici brani perfetti, costruiti per lo più al piano (l’ormai famoso Steinway Vertegrand regalato dal manager per i 30 anni di Turner), che godono di sinuosi e avvolgenti giri di basso (la title-track), brevi ma intensi interventi di chitarra (Golden Trunks) e una classe innata cavata fuori dal retrobottega dell’indie-rock. Father John Misty, Hamilton Leithauser e lo stesso Jim James ci avevano già provato. Gli Arctic Monkeys, però, offrono all’ascoltatore un immaginario ancora più affascinante e fortemente cinematografico. La patina jazz arricchisce ogni brano di una carica erotica così oscura che fin dalle prime note sembra di vedere Isabella Rossellini uscire dal sipario di “Blue Velvet”.
Sorprende anche l’abilità di scrittura di Turner. L’inaspettata loquacità di un leader da sempre molto schivo, che attraverso i testi si racconta senza lesinare parole. Pare di assistere a un lungo flusso di coscienza, che si snoda in pensieri, brevi racconti, confessioni (Star Treatment) e bozzetti grotteschi, in cui per chattare con dio serve una batteria d’emergenza (American Sports). La conclusiva Ultracheese, nel suo incedere lennoniano, chiude una lunga riflessione sulle precarie condizioni degli Stati Uniti di Trump.
Un solo piccolo rischio
Sono piccole perle che si scoprono e apprezzano con l’andare degli ascolti (su tutte la bellissima Four Out of Five, qui la strepitosa versione live nello show di Jimmy Fallon). Del resto, una trasformazione come quella degli Arctic Monkeys prevede una digestione lunga, difficile appunto. E proprio per la sua natura complessa, per l’aspetto monolitico di un disco fondamentalmente di genere, che non concede alcuna variazione sul tema, “Tranquility Base Hotel & Casino” corre un unico rischio: quello di impaludarsi nella sua perfezione e, alla lunga, stancare. Ma se è vero che gli Arctic Monkeys hanno iniziato a guardarsi allo specchio, questo non significa che l’immagine restituita sia quella di una band ammaccata. Anzi. Oltre al ciuffo impomatato di Alex Turner c’è di più.
Andate e predicate
Lo sforzo artistico di questi quattro ragazzi di Sheffield è indubitabile. Si tende ad attribuire il cambio di rotta al solo leader (sempre più leader), ma a ben guardare questa decisione coinvolge l’intera band. Un gruppo che oggi è concentrato in un sapiente gioco di incastri, in cui ciascuno svolge un compito ben preciso e fondamentale, minuzioso ed essenziale. Visti gli ultimi tre album e l’esperienza di Turner con il progetto The Last Shadow Puppets, il cambiamento era già nelle loro corde. E poi avevano tutto il diritto di compierlo, questo cambiamento. Perché porre dei limiti agli artisti, oltre che impossibile, è molto spesso sbagliato. Sarebbe come tentare di arginare il mare per farne una piscina comunale. Lasciamo dunque che anche gli Arctic Monkeys cavalchino questo nuovo tsunami creativo. Poi ciascuno valuterà a suo modo la potenza dell’onda. Io ne sono stato travolto.
Paolo Ferrari
Mi racconto in una frase:
Gran rallentatore di eventi, musicalmente onnivoro, ma con un debole per l’orchestra del maestro Mario Canello.
I miei tre locali preferiti per ascoltare musica:
Cox 18 (Milano), Hana-Bi (Marina di Ravenna), Bloom (Mezzago, MB)
Il primo disco che ho comprato:
Guns’n’Roses – Lies
Il primo disco che avrei voluto comprare:
Sonic Youth – Daydream Nation
Una cosa di me che penso sia inutile che voi sappiate ma ve la racconto lo stesso:
Ho scritto la mia prima recensione nel 1994 con una macchina da scrivere. Il disco era “Monster” dei Rem. Non l’ha mai letta nessuno.