Gli Weezer stanno passando il periodo peggiore della loro venticinquennale carriera. Con grande tristezza, certe cose bisogna ammetterle. Una discografia strepitosa da eroi power-pop, vette assolute (l’esordio, ma anche il fragoroso ritorno alle origini di “Everything Will Be Alright in the End”), coraggio (la svolta di “Pinkerton”, il periodo Epitaph), le melodie che ti si attaccano in testa per non andarsene più di lavori sottovalutati quali “Make Believe” e il “White Album”. Poi un disco melenso, radiofonico e kitch come “Pacific Daydream” del 2017.

In confronto al recentissimo passato, questo album turchese per lo meno riporta ai suoi fan una band che ancora vuole divertirsi e decide di farlo con una selezione di hit classiche rilette con trasporto, ma minimo impegno. I dieci brani proposti sono infatti davvero molto molto simili alle versioni originali. Si nota nella scelta dei pezzi l’utilizzo convinto dei synth (strumento relativamente nuovo per i nostri), ma anche e per fortuna il ruolo ancora fondamentale delle chitarre.

Una volta inserito il disco, sfido chiunque a non cantare a squarciagola i Tears for Fears di Everybody Wants to Rule the World, gli Eurythmics di Sweet Dreams (Are Made of This), i Black Sabbath di Paranoid o l’eterna Stand by Me di Ben E. King. Tutto iniziò da un patto con i fan che li sfidarono a reinterpretare Africa dei Toto. Gli Weezer hanno voluto strafare e quindi eccoci qui con un album intero.

Ad aprile uscirà il nuovo “Black Album” ed i due singoli di lancio lasciano intravedere una svolta sempre più decisa verso il pop. Senza power, senza rock, senza punk. Ciò non toglie che almeno uno dei due brani, Can’t Knock the Hustle, sia una bomba. Aspettiamo due mesi e vedremo. In ogni caso l’Italia li attende trepidante per il live a Bologna di questa estate, con una sola certezza: ragazzi, qualunque cosa facciate, vi ameremo.

Andrea Manenti