Devo ammettere di provare una discreta dose di invidia verso tutte quelle band europee-non britanniche che riescono a imporsi sul mercato internazionale cantando in inglese, pur non essendo madrelingua. Noi non ci siamo mai riusciti. Penso che questo sia principalmente dovuto ad una sorta di timore reverenziale verso i mostri sacri del rock’n’roll, che ci ha spinto a voltare le spalle alle nostre più ambiziose mire per rivolgerci a un pubblico più ristretto, cantando nella nostra lingua. È un modo per non porsi sullo stesso piano, per non permettere di far paragoni. Traslare un modus operandi già consolidato senza dover correre alcun rischio.
La parola “sosia italico” si traduce spesso in “ispirazione” quando si passa da Tom Waits a Vinicio Capossela o dal primo Bugo a Beck, ma rimane poco credibile o forse imprecisa. Non c’è niente di male in tutto questo, non me ne vogliate, ma ammetto che se ascolto i miei conterranei è solamente perché comprendo più facilmente il significato delle loro parole. Altrimenti non ci sarebbe storia. Sarei dunque felice di assistere ad uno slancio di coraggio e di vedere qualcuno che prova a proporre materiale inedito in inglese, giocandosela a viso aperto con i mostri sacri. A quel punto sì che si potrebbe parlare di ispirazioni. E non nascondiamoci dietro a un dito, la nostra dimestichezza con l’inglese e le origini latine della nostra lingua non sono più accettabili come scusanti.
Questo sproloquio era forse un inutile sfogo, ma è stato innescato dall’ascolto del nuovo disco degli Warhaus, progetto solista di Maarten Devoldere (polistrumentista belga già membro della band Balthazar) e della sua ragazza, Sylvie Kreusch. Già, proprio così: una band belga che canta in inglese. E che lo fa da dio. Il disco, omonimo, è il secondo uscito nel giro di due anni, nei quali Maarten ha approfittato della pausa con la sua band principale per mettere a nudo la sua sensibilità artistica, senza dover scendere a patti con nessun compromesso o paletto imposto da un ovvia sintesi collaborativa.
“Warhaus” si presenta proprio così, diretto, dinamico, schietto. Ti prende per il bavero con forza e ti trascina in avanti, brano dopo brano, costringendoti ad ascoltare quello che ha da dirti. Questo approccio intimidatorio e spavaldo lo conferisce soprattutto la voce di Maarten, profonda e sprezzante. Tutto il disco è teso a supportare la baldanza da crooner del suo frontman e l’unico contraltare è rilevabile proprio nella sua metà femminile. I cori e gli echi della Kreusch, alla quale è stato intitolato anche un pezzo, smorzano e smussano gli angoli duri con un tocco di innocenza bambinesca.
A sorreggere questo dualismo perfettamente calibrato ci pensano una solida impalcatura ritmica e un groove trascinante. Mad World e Love’s a Stranger, che sono i due singoli e i brani di apertura del disco, strisciano sinuosi sopra percussioni tribali e su vorticosi giri di basso. Sembra il perfetto accompagnamento musicale per scendere negli scantinati fumosi di un night club dove si esibiscono ballerine di pole dance. Innesti di fiati tipici delle bluegrass bands spostano il mood dal piano sensuale a quello macabro, in quello che sembra diventare un antico rituale funebre. Le percussioni sono sempre presenti e sono sintetiche, ma non lo sembrano affatto. Come del resto il basso elettrico, che a volte è talmente trattato da diventare profondo e rotondo quanto un contrabbasso acustico.
La danza non si ferma mai, macabra o sensuale che sia, e in Dangerous la Kreusch spiazza l’orecchio dell’ascoltatore sostituendosi completamente a Maarten. Canta lei, e lo fa con l’attitudine che fino ad adesso abbiamo associato a lui: dopo sei pezzi di danze e rituali anche la bambina innocente è passata al lato oscuro della forza. Si aprono spiragli di luce e in Bang Bang la chitarra nasale e gli ottoni ci permettono di prendere una boccata d’aria pulita che ci porta ad alzare gli occhi verso il cielo alla ricerca di un po’ di sole, dietro la coltre di nuvole a cui da troppo tempo ci siamo ormai abituati.
Maartin capisce questa nostra necessità e di qui in poi, fino alla fine del disco, molla la presa al collo e ci prende la mano per accompagnarci in un percorso di redenzione. Da un impasto di Tom Waits, Leonard Cohen e Lias Soudi si passa a un più solare e quasi giocoso Adam Green (Everybody, Fall in Love With Me) intriso di uno spiritualismo alla Father John Misty. Si badi bene, è un gioco di rimandi, somiglianze e assonanze, non parlo di plagi o scopiazzature. Sono dei punti di riferimento, mere associazioni mentali. E, strano ma vero, questo cambio non stona per niente, anzi, è di una continuità disarmante. La stessa che ha quel basso vorticoso che non smette di ronzarmi nelle orecchie, costringendomi a mettere di nuovo su questo disco, senza che nessuno mi debba più prendere per il bavero.
Alessandro Franchi

Mi racconto in una frase:
Gran rallentatore di eventi, musicalmente onnivoro, ma con un debole per l’orchestra del maestro Mario Canello.
I miei tre locali preferiti per ascoltare musica:
Cox 18 (Milano), Hana-Bi (Marina di Ravenna), Bloom (Mezzago, MB)
Il primo disco che ho comprato:
Guns’n’Roses – Lies
Il primo disco che avrei voluto comprare:
Sonic Youth – Daydream Nation
Una cosa di me che penso sia inutile che voi sappiate ma ve la racconto lo stesso:
Ho scritto la mia prima recensione nel 1994 con una macchina da scrivere. Il disco era “Monster” dei Rem. Non l’ha mai letta nessuno.