L’ultima volta che ho sentito parlare di Beck è stato un po’ di tempo fa, quando il Corriere della Sera lo aveva definito un “giovane britannico” che aveva collezionato dei premi come “artista esordiente”. Erano i Grammy Awards del 2015 e Morning Phase veniva proclamato album dell’anno.
Da quel divertente episodio sono passati due anni, dall’esordio di Beck venticinque. Se contate gli album in studio, scoprirete che Colors è il tredicesimo. 
 
Non so quale corrente di pensiero abbracciate. Se quella più creazionista, di chi pensa che ogni artista debba mantenere una forte coerenza con se stesso e con il suo passato, o quella di stampo darwiniano, che lascia spazio all’evoluzione e all’adattamento. 
 
Beck è sicuramente uno dei maggiori esponenti della seconda. Colors è, come ogni altro suo album, diverso dai precedenti. E dato che stiamo vivendo un’epoca in cui il pop d’autore piace, e molto, non poteva che essere un album pop. Un pop di alta qualità, ottimista, scintillante ma che, a tratti, ti fa sospettare di aver cliccato per sbaglio su una di quelle compilation strane di Spotify. Per esempio, cosa sta succedendo in Wow? Ancora me lo chiedo.
 
Eppure, anche questa volta, Beck è riuscito a scivolare da un genere a un altro con la solita rilassatezza. Con quell’espressione che sembra voler dire “Visto come si fa? È semplicissimo”. Si riconferma camaleontico, nel senso positivo del termine. Ma per me, come probabilmente per tutte le altre persone della mia generazione ad esclusione di quelle che lavorano alla redazione del Corriere, Beck sarà sempre lo strano ragazzo biondo di Loser.
 
Laura Musumarra