È il 1986 e con mia sorella, più grande di un po’, consumiamo una videocassetta, sotto la benevolenza e la curiosità dei nostri genitori. Sognamo quando appendiamo il poster del film in camera sua e saltiamo di gioia ascoltando una canzone intitolata “Magic Dance”. Da quel momento ho amato David Bowie, nonostante la nostra conoscenza sia iniziata in un momento di difficoltà del suo parrucchiere, che probabilmente aveva visto troppo Jem e le Holograms. In “Labyrinth” recita la parte del malvagio principe di un mondo magico, creato dalle fantasie e dai giochi di Sarah (il film prende il titolo dal libro di favole che lei legge al fratellino), quindicenne gelosa del fratellastro neonato, che spera di far scomparire con una formula magica. Il desiderio diventerà però realtà, e Sarah dovrà andare a cercarlo, affrontando labirinti, indovinelli e orologi che modificano il tempo, come una moderna Alice degli anni ’80 con braccialetti di plastica. In realtà “Labyrinth” è il racconto del passaggio dall’infanzia all’adolescenza, quando si abbandonano i giochi e si comincia a scoprire la sessualità, che in questo caso è Jareth, re dei Goblin affascinantissimo, che vorrebbe rendere la ragazzina sua schiava, o innamorata, stregandola in una danza ad alta carica erotica, e portandola a perdersi in labirinti che diventano specchio del suo inconscio. Sarah-Alice frantuma lo specchio e vi passa oltre, si avventura nel mondo dei Goblins e riporta a casa il proprio fratellino, perdendo i propri giochi, rubati e portati sulle spalle da una vecchia mendicante, e salutando dolorosamente (sempre attraverso lo specchio) la propria infanzia. Come molti film di quel periodo “Labyrinth” è diventato un culto, nonostante gli effetti speciali che oggi (e allora) facevano sorridere e la scena finale del labirinto a metà tra Escher e Prince of Persia. Molto si deve al commento musicale di Bowie, sexy anche in calzamaglia marrone e mullett platinato, in un gioco a due con una giovanissima Jennifer Connelly, circondati da mostri, goblins e pupazzi (il regista, Jim Henson è il creatore di Sesame Street) nati dalla Jim Henson’s creature shop tra cui mi hanno sempre fatto impazzire i mostri rosa che perdono teste e occhi. In “Labyrinth” gli aiutanti di Sarah sono in parte negativi e sempre brutti (rubano, urinano negli stagni, ingannano), mentre altri hanno formato l’immaginario fantasy futuro (come non pensare a “nel paese delle creature selvagge”, tra l’altro creato dalla stessa compagnia fondata dal regista del film insieme a Frank Oz) . “Labyrinth” è un film sottovalutato, fu un fallimento al botteghino, ma ha nutrito le fantasie (fantasy e non solo) di una generazione, con cui è cresciuto e ha vissuto, come un antenato di Harry Potter, insostituibile e addolcito dal nostalgico sapore del ricordo delle nostre infanzie.
Il Demente Colombo