Come olio sull’acqua, i Suede, anticipatori del brit pop, lo hanno superato mantenendosi sempre ben distaccati dal genere, sempre diversi dagli altri, ma sempre riconoscibili e simili a se stessi. Superati indenni i trent’anni di carriera, la band londinese arriva alla pubblicazione del nono album in studio con la stessa credibilità che sin dall’inizio l’accompagna.

Il sound dei Suede è ormai un marchio di fabbrica, ma ogni volta si abbandona a una differente influenza. Se nel precedente e bellissimo “The Blue Hour” si guardava al dark, in questo ultimo e altrettanto riuscito “Autofiction” si pensa, come hanno spiegato gli stessi autori, al punk. Non troverete però tracce di Sex Pistols, Clash et similia in queste nuove undici canzoni. Il punk è infatti presente soprattutto nell’urgenza espressiva delle stesse. Un’urgenza ancora più forte e affascinante se si pensa che a esprimerla sono dei signori fra i cinquanta e i sessant’anni.

Gli ingredienti dell’opera sono ancora una volta la voce cupa ma capace di un falsetto sublime del leader Brett Anderson, una sorta di Dorian Gray moderno che sembra non invecchiare mai all’interno della sua mise impeccabile; i grandiosi ritornelli da hit single (She Still Leads Me On e The Only Way I Can Love You); le ballad strappalacrime (Drive Myself Home e What Am I Without You?); le vesti glam (That Boy On the Stage) e quelle post-punk (Personality Disorder); l’epicità trionfale (la conclusiva Turn Off Your Brain and Yell).

“Autofiction” è l’ennesima riconferma di una delle più grandi band inglesi degli anni Novanta, ingiustamente sempre troppo sottovalutata nel nostro Belpaese.

Andrea Manenti