Si parla tanto di britpop ultimamente, forse troppo. La reunion degli Oasis ha rilanciato il genere (che genere non è) e riacceso gli entusiasmi di chi quel movimento (chiamiamolo così) l’ha vissuto in piena adolescenza. Una domanda è tornata più che mai attuale. Qual è, o qual è stato, il miglior gruppo britpop di quel periodo? Difficile rispondere senza argomentare. Io nel dubbio dico sempre Blur. Ma dipende dai dischi, dagli anni, dagli umori dell’epoca. Impossibile dare una sentenza definitiva.

Più facile, a mio parere, valutare le carriere individuali intraprese da alcuni degli eroi della cosiddetta “Cool Britannia”. Potremmo abbozzare addirittura una classifica, ma prendetela per quello che è. Partiamo dal meno convincente.

 

8. Brett Anderson

Tra i principali protagonisti del britpop c’è sicuramente Brett Anderson. Il leader dei Suede è ancora oggi in pista con la sua band. Chi li ha visti ultimamente dal vivo, avrà apprezzato il suo eccezionale stato di forma. Non andò così bene tra il 2007 e il 2011, quando il buon Brett tentò l’avventura in solitaria con ben quattro album sfornati in pochi anni. Tanto spazio alla voce, alla forma ballata, al melodramma. Ma una mancanza quasi totale di brio e inventiva.

 

7. Liam Gallagher

So di suscitare l’ira di tanti fan, ma diciamocelo: Liam Gallagher, da solo, non ha mai spiccato per originalità. I suoi dischi hanno tutta l’aria dei lavori meno riusciti degli Oasis. In versione live conferma questa tendenza: emozionante quanto volete (ci sono andato anche io e mi sono divertito come un matto), ma sul palco, in sostanza, è come se salisse una cover band con il cantante originale. Fa eccezione l’ultimo album con John Squire, ma lì è soprattutto merito del chitarrista degli Stone Roses.

 

6. Jarvis Cocker

E che dire del cantante dei Pulp? Stargli dietro è quasi impossibile. Complicato dare un giudizio univoco. Troppe divagazioni (cinema, radio, letteratura), troppe collaborazioni (da Charlotte Gainsburg a Chilly Gonzales), troppi esperimenti. Nel mucchio, però, trovi sempre qualcosa di buono. L’ultimo progetto, il synth-pop autoriale di Jarv Is, non era neanche male. Ma diciamo che il miglior pregio di Cocker, più che la produzione solista, è la sua inguaribile ostinazione a viaggiare controcorrente.

 

5. Noel Gallagher

Bisogna dire che Noel si comporta decisamente meglio del fratello. Dallo scioglimento degli Oasis, ha pubblicato una manciata di dischi con i suoi High Flying Birds. Non sempre a fuoco, ma sicuramente coraggiosi. A differenza di Liam, Noel si è raramente affidato alla banale imitazione di se stesso. Piuttosto prova da sempre a inseguire il suo mentore Paul Weller. A più riprese, però, ha provato la strada del rinnovamento. In alcuni casi anche quella della sperimentazione. La sua migliore opera solista, per ora, resta “Chasing Yesterday”.

 

4. Richard Ashcroft

Nel lontano 2000, all’indomani dello scioglimento dei Verve, il diamante pazzo del britpop pubblicò il suo primo album solista, “Alone With Everybody”. Un’opera intima, inaspettatamente pacata. Da allora non si è più fermato. Tra i cinque album pubblicati a seguire, non ci sono sicuramente dei capolavori. Però il pollice in su, il caro Mad Richard, secondo me se lo merita. Perché è vero che ha tentato la svolta radiofonica, ma lo ha fatto con stile. Alcuni suoi singoli mi sono rimasti appiccicati in testa per mesi (vedi Music Is Power e Surprised By The Joy).

 

3. Damon Albarn

Per nostra fortuna, Damon Albarn “soffre” di una bulimia creativa inarrestabile. La sua vena artistica si esprime su più fronti, infilandosi in progetti quasi sempre di alto livello. Appare chiara, però, la sua predilezione per il lavoro in squadra. Insomma, Damon ama essere circondato da altri musicisti. Non si spiegherebbe altrimenti la creazione di band come Gorillaz, The Good The Bad and The Queen, Mali Music e Rocket Juice & The Moon. Tutte artefici di opere memorabili. Qui, però, ci concentriamo sugli unici due album firmati a suo nome, “Everyday Robots” e il più oscuro “The Nearer The Fountain, More Pure The Stream Flows”, entrambi molto riusciti. Ci sarebbe anche “Democrazy”, una raccolta di demo uscita nel 2003, ma fa parte della discografia minore.

 

2. Gaz Coombes

La carriera solista del leader dei Supergrass è davvero notevole. Dopo lo scioglimento della band e il disco di cover inciso con gli Hot Rats (più che altro un divertissement), ha già pubblicato quattro album a suo nome, uno più bello dell’altro. Gaz Coombes si è così rivelato un cantautore elegante (“Matador”), moderno (“World’s Strongest Man”), bravissimo (“Turn The Car Around”). I suoi concerti sono tra i più intensi ascoltati negli ultimi anni. La sua voce, leggermente nasale ma cristallina, resta intatta. Come si dice, pare proprio che Gaz abbia ancora molto da dire.

 

1. Graham Coxon

A vincere la battaglia dei solisti del britpop, a mio modestissimo parere, è l’altro campionissimo dei Blur. In quanto a stile, Graham Coxon è il più americano degli inglesi. Ha sempre guardato più all’indie che al rock britannico. Non a caso, i brani più “storti” dei Blur sono quelli in cui la sua firma è netta ed evidente (i riff di Charmless Man, There’s No Other Way o No Distance Left To Run, le rasoiate di Bugman e Swamp Song, la struggente You’re So Great, cantata dallo stesso Coxon). Sono sempre suoi alcuni assoli iconici che ancora oggi fanno scuola (memorabile quello di Coffee & TV, l’assolo indie perfetto).

A partire dal 1998, Coxon ha sfornato dischi sempre pregiati, che spaziano dal lo-fi degli esordi al power-pop, fino all’indie-punk di “Happiness In Magazines” (2004). Quest’ultimo è tra i suoi lavori migliori insieme al bellissimo “The Spinning Top” (2009), un inno al folk che avrebbe meritato un successo decisamente maggiore rispetto a quello che ottenne all’epoca.

Nella doppia colonna sonora scritta per la serie “The End Of The F***ing World” lo ritroviamo nella sua versione più scarna ed essenziale, voce e chitarra acustica. Anche qui le perle non si contano. Insomma, piace come musicista, ma anche come personaggio. Sempre all’ombra di Damon Albarn, volutamente in disparte, allergico al successo. In poche parole: un antieroe.

Da tre anni Coxon viaggia in coppia con la compagna Rose Elinor Dougall (The Pipettes). Insieme hanno già pubblicato due dischi a nome The WAEVE. Un’ulteriore svolta nella carriera del nostro, alla (ri)scoperta di sonorità questa volta sì, molto british, ascrivibili perlopiù agli Anni ’80. Dentro ci puoi sentire il Bowie di “Scary Monsters” (evidentissimo in uno degli ultimi singoli, City Light), i Tubeway Army di Gary Numan, qualche accenno ai Van Der Graaf Generator e del sano pop orchestrale.

Paolo