Non amo gli incipit delle recensioni con aneddoti e storie personali di chi scrive per due motivi: il primo è perché non sono Lester Bangs (post mortem) e dei miei aneddoti e della mia vita non frega giustamente un cazzo a nessuno, il secondo è perché le poche volte che mi prendo la briga di leggere una recensione su internet facendo slalom tra banner e pop up, vorrei capire in 10 secondi massimo se il disco è bello o brutto e schiacciare play lasciandomi alle spalle le pippe mentali dell’argut* recensore che spesso si erge a espertone snobista.

Qui però c’è un’eccezione, si parla di Blur, non una band, ma la band che per la mia generazione ha mutato i confini del brit pop (pensate a un disco come “13”) e ha continuato a tenere vivo e innovare stile e suoni facendo da propulsore a milioni di persone che suonano (io compreso) anche per merito loro. Inutile che stia qui a parlarvi di Damon Albarn come Re Mida, se siete qui sapete benissimo di cosa stiamo parlando: di un fottuto genio, no?

Dunque tornando a questo disco, ed essendo già trascorsi quei 10 secondi fatidici, vi dirò subito che “The Ballad Of Darren”, il nono disco in studio dei Blur, vale la pena di essere ascoltato con attenzione. E ora che avete cominciato a farlo partire, capirete subito il perché: ha pochi fronzoli ed è dannatamente attuale pur senza perdere l’aura che ha reso i quattro amici londinesi una delle rock band più fighe del pianeta.

Si parte con The Ballad, che se non fosse per i coretti di Graham Coxon sembrerebbe scappata dal quaderno degli appunti della carriera solista di DA, stile “Everyday Robots” per capirci.  Si continua con il secondo singolo St.Charles Square, che ha la garra di una Beetlebum e attacca con la confessione più schietta e adorabile che può fare un uomo di 55 anni con il vissuto di Albarn: “I fucked up”, ossia “raga, ho fatto dei gran casini ma son ancora qui, ce la si fa, si va avanti”. Il pezzo forte del museo arriva ora: Barbaric, forse il migliore del disco per freschezza e spontaneità. La linea melodica del basso è irresistibile e profuma di C-86, quando arriva il ritornello l’ossimoro ti toglie la gravità pur declamando il peso soffocante della drammatica fine di un amore… e ti lascia fermo immobile in perfetto disequilibrio… ci si prova a descrivere cosa succede ed è tutto riassunto nel titolo del pezzo: “I’ve lost a feeling that I tought I’ve never loose. It is barbaric”.

Dopo il bagno di realtà si decolla nell’onirico con la psychedelia leggera di Russian Strings, goccioline di lavanda per le tue tempie pulsanti, e sullo stesso tono acustico e trasognante si rimane anche nella seguente traccia The Everglades (for Leonard). Poi si alza il sipario e parte il primo singolo estratto dal disco, The Narcisisst, un paesaggio sonoro traboccante di visione che riesce a dipingere l’uomo del 2023 con una spontaneità spiazzante. Nella terza strofa si leva al cielo una preghiera e Albarn mormora una frase che strapperebbe un mezzo sorriso persino a Greta Thunberg, eccola: “Oh glorious world, oh potent waves valleys gone wild, connect as to love & keep us peaceful for a while”. Credo si nasconda qui l’essenza del pensiero dei Blur di oggi, accettare la ribellione della natura alle nefandezze dell’uomo, raccogliere quelle poche briciole d’amore che rimangono sul tavolo e provare a soffiarle sul mondo come fosse polline senza mai perdere la speranza che tutto possa rifiorire. Se sulle prime parrebbe una banalissima idea da freakkettoni scalzi con i piedi sporchi, avendo visto il concerto a Lucca (i fortunati del pit, perché gli altri han visto ben poco e varrebbe la pena segnalare al promoter la cosa) capisco molto bene di cosa si parla, qui non si perde lo stile con la S maiuscola, nemmeno un secondo.

Tornando al disco, tutto procede scivolando su Goodbye Albert, ballad midtempo, un fiore in marciscenza che sprigiona nell’aria l’amarezza malinconica di un addio senza un abbraccio. Far Away Island è l’Islanda e chitarrine in levare a profusione, mi piace pensare che la recente dimora di Albarn lo abbia aiutato a ritrovare il suo centro, qui si sentono i venti, gli echi della storia, l’incedere flemmatico di chi non ha scelta se non sopravvivere alle intemperie. Avalon è la tanto attesa terra promessa del brit pop nel 2023 e per i fan affezionati ai vecchi fasti di To The End, un pezzo per chi non teme di cantare a squarciagola con le braccia al cielo dimenticandosi delle proprie ascelle poco profumate.

Si veleggia anche su The Heights, easy listening punteggiata dalle svisate elettriche di un Coxon in stato di grazia. Si arriva verso la fine dell’album con una The Rabbi così bella e scorrevole che pare già un classico. Il finale, poi, non è affatto scontato, è il cigno nero di Aronofsky, The Swan, una ballatona crudele che ti uccide con gli occhi da cerbiatto, soffocandoti di carezze senza averti chiesto il cazzo di permesso.

In sintesi: bentornati Blur, mi avete fatto tornare la voglia di sprecare ancora fiato parlando di musica, quella bella, quella vera, quella senza i tatuaggi in faccia e i  fottuti vocoder, quella che ancora mi attiva l’extrasistole mentre guido nella notte da solo sulla Cisa, quella che un attimo… riascoltiamo ancora tutto, voglio capire. Non ho altro da dire se non un sincero “grazie” di avere ancora questa fame d’amore, intorno a voi il mondo ne ha bisogno, seriamente.

Ah, vi avevo anticipato un aneddoto personale annesso a questa recensione? Vi ho mentito.

Tum

 

Compra il vinile Rosso in edizione limitata su Amazon