Non è facile esprimersi su un disco, quando tutti, là fuori, lo hanno già fatto. È ancora più complicato se si è parlato quasi all’unanimità di un capolavoro. A poche ore dalla sua uscita, “Romance” dei Fontaines DC sembrava già entrato di diritto tra i migliori album degli ultimi anni. Sarà vero?

Non per fare il bastian contrario, ma dopo una decina di ascolti, forse anche una ventina, mi sono fatto un paio di idee che, visto l’andazzo, temo attecchiranno ben poco tra i lettori. La prima: “Romance” non è “un cazzo di capolavoro”, come ho sentito dire. È un mio pensiero eh, de gustibus, e forse a nessuno importa niente. Ma per me i capolavori sono altri. Questo è un buon disco, a tratti anche molto buono, ma non è un capolavoro.

La seconda: “Romance” non è l’album più ambizioso dei Fontaines DC. Lo era “Skinty Fia”, tentativo coraggioso di astrazione dal proprio habitat (sonoro, geografico e spirituale). Nemmeno quello era un capolavoro, ma la band, sputando in faccia a chi la voleva in cima alle classifiche, aspirava, centrando l’obiettivo, allo status del cervo raffigurato in copertina: un animale selvatico strappato dal bosco e sistemato in un sottoscala a dimenare le corna. Qui invece di ambizioni ne vedo poche, e non è necessariamente un male. Semmai c’è il tentativo, anche questo pregevole, di allargare la platea senza perdere credibilità. Una scommessa vinta, direi, perché se è vero che il sound si è ammorbidito, è altrettanto vero che i Fontaines DC, pur freschi di un cambio di etichetta, non sono scesi a compromessi. Bene così.

La nuova formula degli irlandesi non si fonda più sulla compattezza come in passato, ma sulla eterogeneità: indie-rock, shoegaze, brit-pop, spruzzate post-grunge, atmosfere gotiche. Tutto in un unico album. L’evoluzione di “Romance” è simile a quella proposta dagli Idles in “Tangk”. Il brano di apertura ne è una prova. L’approccio e lo stato d’animo, oltre al più scontato dei Nick Cave, richiamano quelle di Idea 01, prima traccia dell’ultimo album degli inglesi di Bristol. Il cantato di Grian Chatten è spiazzante, non sembra nemmeno lui, e ricalca quello di Joe Talbot. Carenti dal punto di vista vocale, entrambi i cantanti hanno compiuto un notevole miglioramento che ha permesso alle rispettive band di ampliare i confini.

È forse questa la vera (e piacevolissima) novità di “Romance”: per la prima volta la voce di Chatten si mette al servizio della band e non viceversa. Desire è un altro esempio di rinnovata estensione vocale, con il falsetto che prende spesso il sopravvento, mentre nel ritornello di Motorcycle Boy tocca corde simili a quelle del Billy Corgan di Disarm. I numi tutelari, d’altronde, sono parecchi. Dal Damon Albarn in versione Gorillaz (l’hip-hop di Starburster ricorda da vicino quello di Clint Eastwood) al buon Johnny Marr solista (Bug è una mezza copia di New Town Velocity), fino ai Pixies più abrasivi, fin troppo evidenti in Death Kink.

Che “Romance” sia un disco derivativo è dunque inutile sottolinearlo. Del resto al giorno d’oggi è difficile fare a meno del citazionismo. Anche per questo l’ascolto dell’album non richiede grossi sforzi e scorre via liscio come l’olio, nonostante la materia si faccia spesso oscura e penetrante. È un pregio non da poco. Ma se fossimo a scuola, gli darei un “distinto”, non andrei oltre. E scusate se non sono di manica larga, ma i vecchi tromboni come me, per dare il premio con lode, esigono qualcosa di più.

Paolo