Ebbene sì. Il Demente Colombo e La Vedova Tizzini si sono incontrati. Si sono scrutati da lontano nella sala di un cinema del centro, si sono riconosciuti e chiamati per nome. “Demente, che ci fai qui?”. “Vedova, qual buon vento!”. Era la sera di “Song to Song”, l’ultima fatica di Terrence Malick, già autore di capolavori come “La Sottile Linea Rossa” e “Tree of Life”. Demente e Vedova si sono seduti a qualche fila l’uno dall’altra. Cinque minuti dopo è iniziato il film. Le loro teste hanno iniziato a viaggiare senza mai perdere di vista l’obiettivo: affrontarsi in una recensione incrociata. Il risultato è tutto da godere. La sagacia del Demente contro il cinismo della Vedova. Voi da che parte state? Buona lettura e (per chi vorrà) buona visione.
“Song to Song” secondo La Vedova Tizzini
PROLOGO. Lo dichiaro subito così non rischio di generare fraintendimenti: dopo la visione di “Tree of Life” non sono riuscita a dire una parola per quasi due ore, né ad articolare un pensiero sul film per quasi tre giorni. Il mio ricordo dell’esperienza potrebbe benissimo essere raccontato da Malick stesso come un vagabondare erratico lungo la circonvallazione fuori dal cinema, la sosta in una tavola calda deserta a osservare lo scorrere del mondo, la luce bassa sull’orizzonte di una sera di tarda primavera.
Citare un ricordo per parlare del cinema di Malick non è casuale perché, come nelle sue ultime opere, anche in “Song to Song”, la sua narrazione procede come il processo della memoria. Non lineare, frammentato, incompleto e fortemente emotivo.
La ragione del mio mutismo era proprio relativa a questa qualità, quella di essermi trovata ad assistere non a un racconto filmico bensì a un’esperienza esistenziale di fronte alla quale le parole trovavano ben poco spazio. Un’epifania cinematografica che capita di rado. Con questa pellicola non è andata esattamente così, ci è voluto più tempo perché mi arrivasse il senso di quello che Malick voleva esprimere e a caldo le mie impressioni si sono limitate all’ameno elenco in 10 punti che andrò di seguito ad esporre.
1. Malick è talmente bravo da essere riuscito a trasformare quel belloccio imbolsito di Ryan Gosling in un attore credibile.
2. Rooney Mara è ufficialmente la reincarnazione di Audrey Hepburn (notizia confermata anche dalla presenza altrimenti inspiegabile di alcuni cerbiatti a un certo punto del film).
3. Nonostante ai musicisti che recitano nella parte di loro stessi sia affidato il compito di dispensare grandi verità esistenziali, ai Red Hot Chili Peppers tocca sempre la parte dei cazzoni che si menano rotolandosi per terra nel backstage.
4. Sospetto che la predilezione per il fish eye presente soprattutto nella prima parte della pellicola sia un omaggio indiretto all’occhio da pesce lesso di Gosling, che nonostante sia credibile rimane comunque un pesce lesso.
5. Nella visione filosofica sottesa al film, l’amore è trattato come il mezzo più potente per entrare in contatto con verità, perdono e misericordia. Questo è vero soprattutto se ti scopi il miglior amico del tuo fidanzato, e soprattutto per quanto riguarda la misericordia.
6. Il lesbo tira sempre.
7. Ho deciso che andrò a fare un viaggio in Messico solamente per farmi predire il futuro da due deliziosi pappagallini che pescano con il becco tra centinaia di cartoncini stampati con frasi da bacio perugina. Anche metterli di fronte a dei biscotti della fortuna e vedere quali mangiano potrebbe essere interessante.
8. Se Cate Blanchett può fare la figura della MILF depressa e piantata in tronco c’è speranza per tutte.
9. La predilezione per i lampadari di Artemide e Flos celebrata da Malick non ha fatto altro che confermare il mio orgoglioso sentimento nazionalista per il design made in Italy.
10. Qualcuno mi aiuti cortesemente a identificare il film citato per rappresentare la discesa agli inferi del demoniaco produttore interpretato da Fassbender perché la mia Laurea in Cinema si è rivelata ancora una volta completamente inutile.
Se questo non vi dovesse bastare per farvi abbandonare il divano e la visione della vostra serie preferita per andare al cinema a godervi due ore e mezza di camera oscillante, vetrate che guardano a ovest, silenzi rarefatti e superlativa fotografia (sia lodato Lubezki, sempre sia lodato) potrei concludere questo pezzo citando uno scrittore che dell’amore e di certi suoi strani risvolti la sa ben più lunga di me e che racchiude il senso di quello che mi è rimasto dopo la visione.
“A unire il cuore delle persone non è soltanto l’armonia dei sentimenti. I cuori delle persone vengono uniti ancora più intimamente dalle ferite. Sofferenza con sofferenza. Fragilità con fragilità. Non c’è pace esente da grida di dolore, non c’è perdono senza sangue sparso sul terreno, non c’è accettazione che non nasca da una perdita. Perché sono dolore, sangue e perdita che stanno alla radice della vera armonia”.
“Song to Song” secondo Il Demente Colombo
Il nuovo film di Terrence Malick potrebbe riassumersi, citando un vecchio film, come un dramma della gelosia con tutti i particolari in cronaca. Il dettaglio è l’arma del regista dell’Illinois, che ha ormai scelto come proprio il linguaggio dell’anima, in un flusso di coscienza dove dialogano pensieri e desideri di protagonisti dai tratti angelicati, anche i più marci.
In un nuovo capitolo di quello che sembra un vero percorso narrativo, dopo il non riuscito “Knight of Cup”, Malick sceglie di esplorare il linguaggio di una donna, le cui suggestioni ed esplorazioni camminano su spartiti musicali, vagando da una canzone ad un’altra come da un’esperienza all’altra. Faye si scontrerà con l’incertezza e il peccato di un’anima persa, sporca, che non sapeva neppure di possedere e, alla fine del proprio viaggio, comprenderà che l’unico senso dell’esistenza dell’uomo è l’amore, che può farsi vero solo nella compassione.
“Song to song” è un film complesso, sospeso, come lo sono i suoi protagonisti, che volano leggerissimi nell’aria, come gli angeli smarriti di Wim Wenders, inquieti spiriti che volteggiano, ballano, si inseguono in un universo rarefatto di sensazioni sfiorate, dove l’indeterminato è la vibrazione di una melodia. Il superfluo è l’inganno delle sensazioni rubate, delle facili esperienze, del frastuono che travolge come un uragano, distrugge sprecando l’essenza attraverso il vortice tormentato di una mondanità dissoluta. Malick riflette sull’amore, in una prospettiva più ampia, spostandosi verso l’amore universale, dove la carne si fa spirito, dove i corpi come piume volteggiano, si piegano, si avvicinano, fino a cadere a terra stremati, sviliti o finalmente felici. Solo l’amore ci salverà e, nel cristianesimo così poco nascostamente espresso in “Song to song” (e negli ultimi film del regista), sembra di risentire le parole di San Giovanni “Alla sera della vita saremo giudicati sull’amore”.
Discutibile per la scelta di attori tutti troppo belli, vivificato da una fotografia metafisica, che vorrebbe immortalare le anime di quei volti di angeli e peccatori imperfetti, con grandangoli e deformazioni (quasi a riprodurre errori dell’occhio umano dettate da vicinanze eccessive) accanto alla perfezione di scenari di classicheggiante purezza.
Come sempre non per tutti, con ogni limite, sbadiglio e perplessità, il cinema di Malick è sorprendente, destrutturato ed entusiasmante, sempre più onirico e vicino al ritmo del flusso della vita.

Nome e Cognome: Demente Colombo
Mi racconto in una frase: strizzacervelli con un cuore di cinema
I miei 3 locali cinema preferiti: Anteo, Apollo, Silvio Pellico di Saronno.
Il primo disco che ho comprato: Cross Road (Bon Jovi)
Il primo disco che avrei voluto comprare: Tapestry (Carole King)
Una cosa di me che penso sia inutile che voi sappiate ma ve la racconto lo stesso: Quando sono triste guardo Zoolander e il mondo mi sorride.