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The Bad Batch, di Ana Lily Amirpour (2016)

Approda solo in questi giorni sulla nota piattaforma di streaming Netflix un film che in Italia non ha avuto l’onore di passare sui grandi schermi del cinema. Per chi è cresciuto a pane e Ken Shiro ed ha passato tutte le due ore di proiezione di Mad Max: Fury Road a bocca spalancata la cosa è una notizia molto più interessante di quanto possa sembrare. Stiamo parlando di The Bad Batch, secondo lungometraggio di Ana Lily Amirpour che le è valso il Premio speciale della giuria alla 73ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia.
L’eclettica regista (sceneggiatrice, attrice e produttrice cinematografica) americana di chiare origini iraniane ha da sempre dato libero sfogo alla sua visione. A partire da A Girl Walks Home Alone at Night presentato al Sundance Film Festival nel 2014. Amirpour ha messo in tavola le carte di chi non teme di rappresentare un personale immaginario. Lei stessa non ha esitato a definire il suo primo lavoro come un “Iranian Vampire Spaghetti Western”.
Non ci si deve quindi troppo stupire quando ha presentato al grande pubblico The Bad Batch come “una post-apocalittica love story cannibale ambientata nel deserto del Texas”.
Il mondo visivo in cui si svolge il film ricorda infatti quello di pellicole come El Topo, Turbo Kid o Mad Max. Specie di quest’ultimo The Bad Barch ricalca i tempi dilatati, le inquadrature lontane e i lunghi silenzi interrotti solo da sporadici e brevi dialoghi.
Se a tutto questo aggiungiamo un cast che conta nomi del calibro di Keanu Reeves, Jim Carey, Jason Momoa, Suki Waterhouse, Giovanni Ribisi, e Diego Luna ci sono tutti i presupposti per qualcosa di davvero interessante.
Il problema è che possiamo parlare di The Bad Batch come di un’occasione persa tra un siblolismo sempliciotto e un’estetica che prevale su una storia fiacca.
[spoiler alert: sono svelati di seguito particolari della trama]
In una non precisata landa desertica del Texas vengono isolati i membri non funzionali della società: criminali, malati mentali, tossicodipendenti e immigrati irregolari e skater (?). Un messaggio anche troppo evidente il in un film che ha iniziato a svilupparsi proprio durante l’ultima campagna elettorale americana basata sull’ergere muri tra “la società” e “gli altri”.
All’interno di questo scenario viene scaricata Arlen senza che ci venga fornita una qualsiasi storia di background. Le uniche cose che sappiamo del personaggio interpretato da Suki Waterhouse è che è una donna bianca di bell’aspetto – non proprio l’immagine del reietto della società. Non passa troppo tempo e subito la “innocente” eroina si trova alle prese con una comunità di palestrati cannibali ritrovandosi rovinata dalla mutilazione di braccio e gamba. Chiaramente riesce comunque nella fuga che la porta ad arrivare in una comfort zone (giusto perchè il messaggio non fosse già evidente). Il villaggio si rivelerà una specie di gigantesco Burning Man di personaggi assurdi, seguaci di Keanu Reeves in vece di santone.
Da lì parte la classica storia tabto cara all’immaginario Western dell’eroe in cerca della sua vendetta e redenzione.Il colpo di scena che tutti si aspettano è che la vittima finisca per innamorarsi del suo stesso aguzzino rifiutando a sua volta la società in cui è stata confinata.
[fine spoiler]
In tutto questo ci sono continui e banali riferimenti visivi che anche un fan di Uomini & Donne saprebbe cogliere. Puzzle della bandiera americana a cui mancano dei pezzi, banconote relegate a semplici pezzi di carta da bruciare per scaldarsi al fuoco, un santone che droga i suoi discepoli per controllarli e via dicendo…
La trama è davvero poca roba per un film che dura due ore in cui i dialoghi sono cosa rara. L’immaginario estetico di un Mad Max Losangelino non basta a riempire una pellicola vuota anche nei messaggi che prova maldestramente a inviare.
Se è vero che c’è chi ha definito Lily Amirpour il Tarantino del futuro la strada è ancora bella lunga…

Simone Casarola (@simocasarola)