“Who Built The Moon?”. Una domanda, Noel Gallagher, l’ha stampata in copertina. Una serie di domande rimbalzano invece nella nostra testa appena è girata la notizia del nuovo disco del Gallagher senior, a distanza decisamente ravvicinata dall’uscita di quello del fratellino Liam: sarà un caso o sarà una trovata pubblicitaria? Sarà cercato, questo inevitabile confronto e parallelismo? E soprattutto, varrà la pena farlo, parlarne, o dobbiamo prepararci a un sofferto disincanto come è stato per il lavoro del fratello minore?

Beh, Noel se n’è fottuto, come d’altra parte è solito fare. Ed eccoci tutti con il suo disco tra le mani. C’è chi dice che sia un capolavoro. Altri che faccia schifo, e sono tornati a piangere sulle copertine degli Oasis, oppure a spararsi in cuffia “As You Were” (qui la nostra recensione). Ma forse per rispondere alle nostre domande, bisogna cercare di scavare dentro quello che ci pone lui. Chi ha costruito la Luna?

Un pezzetto abbastanza consistente della Luna musicale che conosciamo, l’hanno costruita loro due insieme, gli Oasis. Ma la Luna ha le sue fasi, e Noel – a differenza del fratello, che se n’è fregato delle lezioni di astronomia (come di tanto altro), sembra averlo capito, e averlo ben declinato in tredici nuovi spicchi lunari.

Si apre con Fort Knox, che spinge sui cori, sulle chitarre, sulle distorsioni. Qui le parole non servono, serve solo chiudere gli occhi e lasciare che l’aria calda e sferzante ti bruci le guance. E poi si passa alla pura carica ritmata e fischiettante di Holy Mountain, per poi scivolare a colpi di batteria, cori e fiati in Keep On Reaching. Sonorità inedite, sperimentazioni strumentali e armoniche che ci fanno respirare aria di novità e riescono a tagliare il cordone ombelicale con un’epoca musicale precedente, senza rinnegarla.

I testi, che non sono monopolizzanti (anche se sono da sempre il pezzo forte di Noel), sono eguagliati nell’accuratezza dalla ricerca musicale, di cui sono emblema gli interludi di preziose gocce che cadono tintinnanti su un tappeto sonoro amalgamante.

Ma non sono certo trascurati. If Love Is The Law parla di un amore fuggito, perduto, galoppante nella mente e nelle percussioni che lo accompagnano, un trotto selvaggio e criminale, un tornado che ha rischiato di asfalatare la già tormentata strada della vita, ma che alla fine la culla su un’armonica a bocca, tentando di ritrovare la serenità.

She Taught Me How To Fly è la canzone che tutte noi “finte dure” vorremmo sentirci dedicata: romanticamente rock, sdolcinata ed energica, che contrasta parole morbide a un suono pieno e carico, per dirci che «tra tutte le strade, preferirei quella che torna da te». Come anche la voce e la chitarra di Dead In The water: «Non andartene via amore, non ce n’è nulla che potrebbe farmi sbriciolare sul vetro rotto. Lascia che la tempesta impervi, potrei morire tra le onde ma non avrò pace mentre l’amore giace morto nell’acqua».

“Who Built The Moon?” è un disco che mescola insieme ingredienti tramandati dagli anni con sapori nuovi e contemporanei: una torta dalle gocce di cioccolato psichedelico, lievitata a suon di brit pop figlio dell’era Oasis, ma diventato altro, evolutosi, cresciuto di efficacia musicale senza mutare la consueta potenza testuale.

Un impasto ruvido e cool, che riempie dopo il consumo, che necessita forse di qualche ora di maturazione per poterlo apprezzare in profondità, ma che poi ti incastra in un loop chimico abbagliante e crea dipendenza.

Giulia Zanichelli