Miles Kane è bravo e “forse pure” fortunato. Bravo perché è una voce – nasale – ormai inconfondibile del brit-pop-rock dei giorni nostri. Ha la sua pletora di fan, strappa e catalizza collaborazioni di altri grandi nomi (da Lana del Rey, al supergruppo The Jaded Hearts Club, per dirne due), è il più serio candidato ad essere ricordato come icona mod di questi anni (con la Fred Perry che se l’è assicurato come testimonial qualche anno addietro), ed è un animale da palco niente male.  

“Forse pure” fortunato, perché non sappiamo quantificare con certezza quanto l’incontro con Alex Tuner gli abbia cambiato la vita, da quando nel 2006 i primissimi Arctic Monkeys coverizzarono Put Your Dukes Up John dei The Little Flames (di cui il buon Miles faceva parte): di qui l’inizio della loro amicizia, i Last Shadow Puppets, e via andare.  

Se i primi due album solisti di Kane avevano però messo in mostra, al netto di un’originalità sotto i tacchi, una buona verve in termini di aliquote brit-rock e andazzi melodici contagiosi, già lo scorso “Coup de Grace” aveva evidenziato un appiattimento compositivo e di carica energetica abbastanza marcati, con l’artista più intento a catalizzare luce su di sé che a creare un qualcosa di effettivamente personale, pescando a piene mani e senza problemi da decenni di musica più o meno pop.  

Veniamo allora a “Change the Show”: ampiamente anticipato e pubblicizzato, l’album è stato scritto durante la pandemia con relativi sentimenti “evoluti” (ipse dixit) a caratterizzarne la scrittura. Che effettivamente ha qualche buono spunto e trasuda una buona dose di aromi d’Albione. E la musica? Guitar driven, of course. E con evidenti, palesi, marcati richiami al motown come al Northern Soul di stampo ’60-’70. Fila che è un piacere, riattiva le sinapsi, ha incastri gradevolissimi, si snoda benissimo soprattutto quando gli accenti si fanno upbeat.  

E allora? E allora è che tutto fila “forse pure” troppo bene, così effervescente e ruffiano, col sorriso Durban’s del nostro che sembra dirigere il tutto, piacendosi sempre tanto. Molto e forse più di quel che effettivamente vale. Perché la sensazione che alla fine ti lascia “Change the Show” è che se un giorno, girando per qualche bancarella del Nord Inghilterra, capitasse di acquistare a pochi spiccioli un dischetto di un qualche carneade Northern Soul di decenni addietro, e all’interno vi si trovasse un pezzo già sentito in questo album, non ce ne se sorprenderebbe nemmeno più di tanto.  

Perché Kane è forse cool, forse carismatico, forse pure un’icona mod, ma ancora – probabilmente errando – l’etichetta di potenziale nuovo Paul Weller è lì che aleggia: lui non fa niente per prenderne le distanze, né a fatti né a parole, ma lo spessore dell’offerta musicale e soprattutto l’originalità sembrano tremendamente mancare.  

“Change the Snow” di certo non disturberà e accompagnerà il minutaggio d’ascolto con bollicine e buon gusto: Miles Kane passerà alla cassa, siamo sicuri. Ma senza spunti personali e distintivi degni di futura memoria, un secondo ascolto sarà davvero esercizio da fan e poco più. E Paul Weller (e se non Paul Weller, la minima memorabilia) resterà lassù, distante chilometri.

Anban