paul weller in sunset cover

Simbolo di pura inglesità, all’alba dei sessantadue anni Paul Weller torna con la sua ultima fatica discografica, “On Sunset”, già precedentemente rimandata due volte nella prima parte dell’anno a causa della pandemia. Quindicesimo album solista in 30 anni in cui il biondo vocalist ha saputo egregiamente svolgere il ruolo di padrino del brit (rock o pop che sia), “On Sunset” esplora la storia della musica inglese attraverso uno sguardo sempre attento, fra rimandi a una carriera quasi cinquantennale e i risaputi amori per i propri colleghi.

Si parte quindi con Mirror Ball, una mini-opera di quasi otto minuti nei quali si mescolano più canzoni come a narrare una storia. Come non pensare ai padri putativi Who e ai loro capolavori “Tommy” e “Quadrophenia”? . Baptiste e Old Father Tyme vivono di soul e blues, mentre Village e la title track sono ottime ballate pop.

Ispiratissima l’elegante More, in duetto con Julie Gros dei Le Superhomard, legata malinconicamente ai mai dimenticati Style Council. Equanimity e Walkin’ sono tradizionalmente english, ribelli e stilose, molto Libertines e (ovviamente) Jam. Strana l’ipnotica ed elettronica Earth Beat.

Se fino a qui l’album è buono, ma senza brani indimenticabili, senza le vette a cui spesso il musicista ci ha abituato, ecco che proprio sul finale arriva la zampata del vecchio leone: Rockets, infatti, può ancora dare lezioni di scrittura a qualsiasi Noel Gallagher o Richard Ashcroft che si voglia. È sempre un piacere, Paul.

Andrea Manenti