Quest’anno Paul Weller ha spento 66 candeline concedendosi un nuovo album, intitolato appunto “66”. Si tratta del suo terzo disco post-pandemia, periodo che ha segnato una sorta di rinascita per il genietto del Surrey.
Laddove “On Sunset” era maggiormente legato al rock (con una bellissima ballad come, che se non avete ancora sentito dovete per forza recuperare) e “Fat Pop (Volume One)” più vicino ad atmosfere ballabili, questo “66” è un disco più cantautorale. Di certo c’è che il Modfather dimostra per l’ennesima volta la sua innegabile classe.
Lontano dagli esordi punk dei Jam, non così tanto, invece, dalla svolta jazzata degli Style Council, forse più dalle chitarrone dei capolavori solisti (“Heavy Soul” e “Wild Wood”), questo diciassettesimo lavoro solista mette in fila dodici gioiellini dal vestito perfetto.
Si inizia con l’englishness ultra cool di Ship of Fools, si continua con la dance irresistibile di Flying Fish, poi con il rock & trombone di Jumble Queen. A seguire tre ballad che grazie al solito timbro blues risultano emotivamente altissime (Nothing, My Best Friend’s Coat, Burn Out), lenti orchestrali quasi da crooner (Rise Up Singing, A Glimpse of You, In Full Flight), pop songs pure (I Woke Up, Sleepy Hollow) e persino qualche distorsione qua e là in Soul Wandering.
Andrea Manenti
Mi racconto in una frase:
Gran rallentatore di eventi, musicalmente onnivoro, ma con un debole per l’orchestra del maestro Mario Canello.
I miei tre locali preferiti per ascoltare musica:
Cox 18 (Milano), Hana-Bi (Marina di Ravenna), Bloom (Mezzago, MB)
Il primo disco che ho comprato:
Guns’n’Roses – Lies
Il primo disco che avrei voluto comprare:
Sonic Youth – Daydream Nation
Una cosa di me che penso sia inutile che voi sappiate ma ve la racconto lo stesso:
Ho scritto la mia prima recensione nel 1994 con una macchina da scrivere. Il disco era “Monster” dei Rem. Non l’ha mai letta nessuno.