the car

Prima di affrontare il nuovo disco degli Arctic Monkeys, ho ascoltato (e letto) il parere di molti amici. Ok, c’è chi lo sta apprezzando molto. Ma si tratta perlopiù di fan irriducibili che difficilmente sputerebbero su un lavoro della loro band preferita. E ci sta, capisco benissimo. I restanti, però, ovvero la maggioranza, parlano di un disco sostanzialmente «brutto». Anzi, a dirla tutta, l’aggettivo più usato è di quelli più antipatici: «noioso». Insomma, “The Car”, secondo la mia cerchia, è una palla tremenda.

Devo essere sincero. Senza aver ascoltato una sola nota dell’album, così, d’istinto, mi ero schierato con la squadra dei detrattori. Mi ero lasciato influenzare, lo ammetto. D’altronde capita spesso quando si parla di musica. Mi ero convinto che “The Car” fosse «brutto» e «noioso». Tuttavia non potevo lasciarmi divorare dal pregiudizio, perché di questo si trattava. Così ho provato a resettare tutto e a dedicarmi finalmente a un ascolto il più possibile pulito e libero. Un ascolto vergine.

E così ho fatto. Ora, dunque, posso mettere in fila qualche pensiero senza parlare a vanvera o per sentito dire. Ma avverto gli irriducibili fan: alla fine della fiera, ascolta che ti riascolta il disco, direi che l’istinto non mi aveva portato più di tanto fuori strada. Bene. Allora mi lancio in qualche considerazione. Tre per la precisione. Poi ditemi se siete d’accordo.

 

“The Car” è un disco difficile

Punto primo. “The Car” è un disco difficile da ascoltare. E sia chiaro: non è un problema di complessità, non stiamo mica parlando di “Trout Mask Replica”. La questione riguarda piuttosto la sua eccessiva omogeneità. Il suo essere sempre uguale a se stesso. Si fa fatica a distinguere un brano dall’altro. I toni, lo stile e l’approccio non subiscono mai variazioni, se non minime. È come una strada senza curve e senza semafori. Una strada con il divieto di sorpasso e il limite dei 50 orari. Imposti la velocità di crociera e togli le mani dal volante. Bello il panorama, eh, ma 37 minuti di rettilineo al ritmo di un Ciao Piaggio sono un po’ troppi.

La solfa cambia un pochino quando ascolti un pezzo alla volta, uno ogni tanto. In questo caso può risultare piacevole, si apprezza di più. Per questo sono convinto che se “The Car” fosse stato un EP, sarebbe stato un disco decisamente più efficace. Una manciata di brani, anziché dieci, lo avrebbero reso una piccola perla.

Fosse stato per me, avrei scelto questi quattro. Innanzitutto There’d Better Be A Mirrorball, un ottimo incipit dalle atmosfere fortemente cinematografiche (tra il poliziesco e l’horror d’autore), che apre il disco come un sipario e si prende ben 54 secondi per dare il via alle danze. Qui fa subito capolino una delle (poche) novità di “The Car”, ovvero gli archi (già prerogativa dei Last Shadow Puppets), che la faranno da padrone per l’intero album.

Nel mio EP ideale inserirei anche la seconda traccia, I Ain’t Quiet Where I Think I Am, uno dei rarissimi slanci in avanti di “The Car”, questa volta interpretato in chiave funky, con un divertente wha-wha che rende il pezzo più rotondo e dinamico. Impossibile non inserire anche Body Paint, obiettivamente l’episodio più intenso del lotto: una ballatona che si articola in tre fasi, con la solita sezione d’archi che a un certo punto richiama il mellotron di McCartney in Strawberry Fields Forever. In chiusura ci starebbe bene Mr. Shwartz, un brano acustico, dotato di un buon arpeggio di chitarra, piuttosto avulso dal resto della scaletta e per questo, ahimé, destinato ad essere dimenticato dai più.

Ecco, queste quattro canzoni, prese da sole, impacchettate in un EP ben curato, diciamo due tracce per lato, avrebbero fatto un figurone. In un LP come “The Car”, invece, si perdono in un mare magnum di coccole che, parlo per me, finiscono un po’ per anestetizzarti.

 

“The Car” è un disco prevedibile

Punto Secondo. Questo settimo disco degli Arctic Monkeys, fatto in questa maniera qui, c’era da aspettarselo. Era un disco prevedibile. Alla fine è un “Tranquility Base…” portato all’ennesima potenza. È il compimento definitivo di una trasformazione che era già ampiamente in atto. Ma con una differenza sostanziale. Il disco del 2018 era una meraviglia retrofuturista che giocava già con il vecchio soul e con il pop barocco. In quel caso, però, la band inglese suonava con i vestiti ancora sporchi di garage-rock. In “Tranquility Base…”, oltre alla classe, c’erano istinto, genuinità ed energia. C’era la polvere, santo cielo, la polvere! Quel sottile strato grigiastro, ricettacolo di microbi e sporcizia, che, diciamocelo, sta tanto bene sia sulla chitarra che sul pianoforte. Gli dà un’aria vissuta, arida, grintosa.

Nel nuovo album, invece, tutta questa roba non c’è più. Gli Arctic Monkeys hanno dato un deciso colpo di straccio alla loro musica per consegnarci un prodotto pulitino, lucido lucido, senza nemmeno una ditata di unto. Un album che sicuramente avrà provocato abbondanti orgasmi ai producer e ai maniaci del sound design («uh, senti come suona questo disco qui!»), ma che a conti fatti è come un jazz bar degli anni ’50 in cui non si può fumare. Una rivista molto cool, è vero, ma talmente patinata da scivolarti addosso senza colpo ferire.

Non c’è più nulla di inglese in questi Arctic Monkeys, c’è da dire anche questo. L’universo a cui fanno riferimento, testi compresi, è quello del jet set americano di un’epoca ormai andata, star e starlette più o meno in auge ai tempi di Marilyn. Ambienti di una certa classe. Decadenti, ma di una certa classe.

 

È il trionfo di Alex Turner

Il punto terzo riguarda lui, Alex Turner. Uomo immagine, autore, leader di un gruppo che ha saputo conquistare il mondo. “The Car” sancisce in modo netto la vittoria del boss sui suoi compagni. Ben inteso, la band si fa sentire e fa nuovi passi in avanti, ma la presenza del cantante è diventata ormai schiacciante. Il suo crooning magnetico raggiunge livelli di pornografia incontrollabili, di una loquacità talmente straripante da non lasciare quasi mai spazio a un ritornello che uno.

I punti di riferimento sono il David Bowie di “Young Americans”, la motown tutta, il Joe Jackson che a un certo punto della carriera diventa il classico englishman in New York. Una trasformazione degna di nota, la qualità c’è ed è indubbia, ma il percorso è alquanto derivativo. Non che quando urlava sulle note di When The Sun Goes Down non lo fosse, ma qui, a parte qualche falsetto, Alex Turner sembra cantare sempre la stessa canzone. Vogliamo dire che annoia? Diciamolo, a costo di passare per superficiali.

Questo “The Car”, in definitiva, è un album elegante, arrangiato con gusto, ma eccessivo. Può risultare piacevole, ma solo a piccole dosi. Basta questo per essere considerato un bel disco? A mio parere no. Ci sarebbe poi da ragionare sul futuro degli Arctic Monkeys. Insomma: quale sarà il prossimo passo? Al momento vedo poche soluzioni, ma spero di sbagliarmi.

Paolo