Lou Barlow non suona musica indie. Lou Barlow è una delle radici del suono indipendente, il fondamento forse di una cultura di un tormentato sottosuolo. Sicuramente ne è linfa vitale, con la sua intensa attività compositiva e creativa sia all’interno di una band (nel totem undeground dei Dinosaur Jr e negli altri progetti successivi, da Sebadoh a Folk Implosion), sia da quando, nel 2005, ha abbracciato anche la strada cantautorale solitaria. E non di indie pret-à-écouter, ma di quello che ha dietro una filosofia di vita, una storia di periferia e un sentimento di inadeguatezza universale. Quello che sta nella testa e non nei risvoltini, insomma.
Il suo ultimo EP, “Apocalypse Fetish”, si compone di cinque canzoni che per dieci minuti strappano via il resto del mondo. Siamo lì, noi e lui e il suo ukulele, nel regno del lo-fi. Si apre con la delicata e sognante The Breeze, il brano ciliegina del disco, che si schiude in una triste bellezza fatta di promesse vuote e sentimenti controversi e delusi, portati dal vento. Prosegue in un’enciclica dubbiosa verso l’universo in Apocalypse Fetish. Ci dice di non fidarci di parole e aforismi altrui, che tanto la verità non esce dai taschini di nessuno. Poi discende verso altri mari: con Anniversary Song si lancia in un folk schizzato di romanticismo e qualche tocco di chitarra elettronica, Pour Reward si scioglie in un tocco più intimista, che si sdrammatizza nel rieccheggiare rock’n’roll percosso e deformato di Try 2 B.
E poi, di netto, finisce: e quando finisce, ci lascia con l’amaro in bocca, perché ci aspettavamo altro, di più, più chiaro e più direzionato, forse. Queste canzoni nate – ci dice lui – sulle scale del retro dell’Eagles Ballroom di Milwaukee, in Wisconsin, sono rimaste incastrate come brillantini in un’enormità acustica vuota e riverberante. E infatti, è così che ci sentiamo: seduti sul parapetto di un balcone, protesi verso un cielo di cui però afferriamo solo qualche sbuffo di nuvola. L’ultimo album del 2015, Brace the Wave, ci aveva regalato uno spessore emotivo e compositivo, una chiarezza espositiva che è difficile da coagulare e ritrovare in sole cinque tracce. E così il sapore di amarognolo tende a prevalere. Non è delusione, ma senso di incompletezza. Un mix di piaceri che lascia il palato stordito, certo piacevolmente ed egregiamente, ma stordito.
Giulia Zanichelli

Mi racconto in una frase
Famelica divoratrice di musica e patatine (forse più di patatine), diversamente social e affetta dalla sindrome di “ansia da perdita” (di treno, chiavi di casa, memoria
e affini).
I miei 3 locali preferiti per ascoltare musica
Auditorium Parco della Musica (Roma), Locomotiv Club (Bologna), Circolo Ohibò (Milano).
Il primo disco che ho comprato
“Squérez?” dei Lunapop, a 10 anni. O forse era una cassetta.
Comunque, li ho entrambi.
Il primo disco che avrei voluto comprare
“Rubber Soul” dei Beatles.
Una cosa di me che penso sia inutile che voi sappiate ma ve la racconto lo stesso
Porto avanti con determinazione la lotta per la sopravvivenza della varietà linguistica legata alla pasta fresca
emiliana: NON si chiama tutto “ravioli”, fyi.