L’uscita di ogni album degli Interpol porta con sé un peculiare e personale carico d’aspettative; sarà anche che è dal terzo capitolo, “Our Love to Admire” (2007), che i newyorkesi non riescono a soddisfare appieno le attese, che sono comunque sempre alte, visto che i loro primi lavori li avevano collocati di diritto nell’olimpo dell’indie rock, pur nella sua branchia new wave-post punk revival. Forse è soltanto una coincidenza, ma anche l’addio del bassista Carlos D. non sembra avere affatto giovato alla qualità produttiva del gruppo: sia “Interpol” (2010) che “El Pintor” (2014) hanno lasciato sicuramente più ombre che luci, sia a livello di critica che all’ascoltatore maggiormente o meno affezionato
All the Rage Back Home, che aveva anticipato appunto “El Pintor”, sembrava peraltro di ottimo auspicio per quello che invece, come detto, è stato in fin dei conti un capitolo se non deludente, sicuramente non indimenticabile. Che poi l’ascoltatore medio dagli Interpol non si aspetta che la band batta nuove strade musicali, strumentali, stilistiche; dagli Interpol, con i suoi pro e i suoi contro, la prima cosa che cerchiamo è che “facciano gli Interpol”, a prescindere dal fatto che anche Paul Banks e soci siano ormai uomini fatti e finiti, e come uomini non sono immuni all’incedere del tempo e a tutti quei fattori che possono influire in maniera determinante sul loro prodotto artistico.
Anche in questo caso, i singoli di lancio non sono nient’affatto male, e destinati ad essere sicuri cavalli di battaglia per le prossime esibizioni live: The Rover ne ha tutti i crismi, è pulsante, orecchiabile, a presa diretta, incalzante; in Number 10 Fogarino e Kessler sono precisi ed eleganti, frenetici quanto allo stesso tempo brillanti, ed anche Banks, con la sua voce e la sua classe inconfondibili, dà calore e vigore al pezzo.
Sembra questo l’intento che i ragazzi si siano dati: provare (anche ad) uscire dalle ambientazioni claustrofobiche, scure, caotiche, da pennellata rossa su parete nera, comunque affascinanti e seduttive tipiche di tutta la produzione, con esplosività e cercando di variegare il lavoro, senza allo stesso tempo snaturare quello che è, inconfondibilmente, il taglio Interpol; per farlo si sono avvalsi del supporto di Dave Fridmann, pezzo da novanta tra i produttori alt-rock (Tame Impala, Mogwai, MGMT, Flaming Lips, Spoon, …), ausilio esterno teso a dare organicità, intensità, bellezza oggettiva al prodotto.
L’impatto inziale è confermato affrontando “Marauder” nella sua completezza: If You Really Love Nothing, Flight of Francy, It Probably Matters sono, nella loro semplicità strutturale e melodica, pezzi di bravura di Banks. Fogarino e Kessler lo accompagnano senza mai insidiarlo o sovrastarlo. Complications e Mountain Child sono dirette ed accattivanti, Stay in Touch e Nysmaw più rarefatte, ma altrettanto vive.
Dunque, dopo un paio di passi incerti, possiamo dirlo con buona sicurezza: con “Marauder” gli Interpol vanno a punto. Se alla prestazione corrisponderà una medaglia, e di quale metallo, lo scopriremo sul breve periodo grazie anche e soprattutto alla resa live e alle reazioni del pubblico a questo sesto capitolo.
Anban
Mi racconto in una frase:
Gran rallentatore di eventi, musicalmente onnivoro, ma con un debole per l’orchestra del maestro Mario Canello.
I miei tre locali preferiti per ascoltare musica:
Cox 18 (Milano), Hana-Bi (Marina di Ravenna), Bloom (Mezzago, MB)
Il primo disco che ho comprato:
Guns’n’Roses – Lies
Il primo disco che avrei voluto comprare:
Sonic Youth – Daydream Nation
Una cosa di me che penso sia inutile che voi sappiate ma ve la racconto lo stesso:
Ho scritto la mia prima recensione nel 1994 con una macchina da scrivere. Il disco era “Monster” dei Rem. Non l’ha mai letta nessuno.